Quantcast
Channel: Garbo
Viewing all 204 articles
Browse latest View live

... D'INTENDERE & VOLARE 2 (L'INFINI)

$
0
0








«Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d'Erminia, di Persia e di Tarteria, d'India e di molte altre province. E questo vi conterà il libro ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide. Ma ancora v'à di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di veduta e l'altre per udita, acciò che 'l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna.  Ma io voglio che voi sappiate che poi che Iddio fece Adam nostro primo padre insino al dí d'oggi, né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno uomo di niuna generazione non vide né cercò tante maravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo. E però disse infra se medesimo che troppo sarebbe grande male s'egli non mettesse in iscritto tutte le maraviglie ch'egli à vedute, perché chi non le sa l'appari per questo libro.  E sí vi dico ched egli dimorò in que' paesi bene trentasei anni; lo quale poi, stando nella prigione di Genova, fece mettere in iscritto tutte queste cose a messere Rustico da Pisa, lo quale era preso in quelle medesime carcere ne gli anni di Cristo 1298».


(Marco Polo, Il Milione, 1).










Mi entusiasmava anche Alessandro, allievo di Aristotele, mi sono chiesto per lungo tempo perché egli si avventuri verso l’Asia, cosa spera di trovare? Conquista? Possesso? Dominio? Delirio di onnipotenza? Mi sono convinto che l’Alessandro che parte dalla Macedonia non è lo stesso che giunge in India, impazzisce strada facendo, qualunque cosa lo guidi si fa sempre più delirante man mano che penetra l’Asia come si penetra una bagascia usurata, col la stessa facilità con cui un coltello affonda nel burro.

Non brama conquiste Alessandro, anzi, non si cura molto di ciò che conquista, non fa nulla per consolidare i suoi nuovi possessi, spesso conferma al potere i satrapi che gli si sono arresi e che gli hanno aperto le porte della città, in altri casi pone a capo di città e province i suoi generali e i suoi uomini di fiducia, non conquista (come i romani) per assoggettare nuove terre e nuove genti all’impero, non vuole fondare un impero, vuole soltanto andare al di la, vedere cosa c’è oltre, stupirsi di nuove città, nuove genti, nuovi costumi.

Non vuole il dominio o il possesso, rimanda indietro le mogli di Dario e dei suoi satrapi che gli si arrendono, offerte com’era d’uso fra quelle genti, perché le sodomizzasse in quanto vincitore, rispetta la figlia di Dario ormai alla sua mercé; il suo scopo è andare oltre, vedere cosa c’è dopo, anche contro il parere dei suoi amici e dei suoi generali, che cominciano a sospettare che sia pazzo, solo davanti all’Oceano Indiano è costretto ad arrendersi, non è attrezzato per continuare il suo viaggio.

Allora gli sorge un’idea, un pensiero improvviso, una follia pura, si ricorda dell’Egitto e torna indietro attraversando la Bactriana, la Scizia, la Persia, la Media, l’Armenia, l’Asia Minore, fino a Menfi, fino a ridiscendere il fiume Nilo fino a Marsa Matruh, dove i sacerdoti lo acclameranno come figlio di Ammon, la principale divinità egizia.

Ma non si ferma li, perché morirà a Babilonia, sempre alla ricerca di nuove sensazioni, di cose inedite da vedere e di cui saziarsi fino a quando la curiosità non si riaccenda e gli imponga di riprendere il viaggio.
Sognavo di essere Marco Polo, in un’età che in età variamente indicata da dodici a diciannove anni, perché le varie fonti non concordano, parti da Venezia col padre Niccolò e lo zio Matteo percorrendo la via della seta fino in Cina (che lui chiama Catai), attraversando il Medio Oriente, il Kurdistan, l’Armenia, la Persia, il Turkestan, l’Afghanistan, l’India, il Tibet e il Tangut.
Toccando città come Costantinopoli, Trebisonda, Acri, Gerusalemme, Damasco, Bagdad, Herat, Bombai, Samarcanda, Karakorum, Hormuz, Pechino, Hangzhou, Xanadu; descrivendo popoli, usi, costumi, stranezze e meraviglie e tutto ciò che lo colpiva.












Marco vive un’esperienza straordinaria per un giovane del suo tempo, ma nessuna delle novità che lui coglie durante il suo viaggio viene compresa in patria, persino il “governo dei savi” della Serenissima Repubblica di Venezia sembra comprendere il valore di ciò che i Polo avevano scoperto, nemmeno l’uso dell’assegno al portatore, che sarebbe stato utilissimo per una repubblica marinara, per non costringere i propri mercanti a portare con sé cifre elevate per i loro commerci, col rischio altissimo di essere derubati, fu colta e utilizzata, lo faranno solo qualche anno dopo i Cavalieri Templari, che stavano diventando i banchieri di Dio.

Oppure, mi sarebbe piaciuto essere Cristoforo Colombo, e andare per mare e vedere molti posti sconosciuti, ammirare le meraviglie che solo il candore e la fantasia di un bambino, o il candore e la fantasia di un popolo che esce dal medioevo e si affaccia alla modernità, possono ideare.

Mi sarebbe piaciuto discutere con i matematici, i geografi, i cartografi, i dottori di tutta Europa, perorare la mia causa il sogno di una vita dinnanzi a João II de Portugal o a Isabel I de Castilla, su come buscar el Levante por el Poniente.
Chiedevo solo due o tre caravelle e un pugno di uomini arditi con cui affrontare l’ignoto, tutti i pericoli e il mondo straordinario e terrificante che avevano narrato poeti come Omero e Dante, filosofi come Platonee storici come Erodoto.
Mi piace la figura di Colombo, visionario ardente, che riprende i calcoli di Eratostene o di Posidonio di Ipamea sulla circonferenza terrestre, le stime di Tolomeo, le “correzioni” di Paolo dal Pozzo Toscanelli, le letture di Plinio, Pausania, Zacuto, Pietro d’Ailly, Ezra, Marco Polo, le infiammate discussioni con alcuni amici, con la “juntas dos mathematicos” a Lisbona e con i dottori di Salamanca in Spagna, le udienze presso la regina Isabella, i frenetici preparativi per la partenza, il viaggio e le sue difficoltà nel controllare marinai spagnoli che diffidavano di lui e della bontà della sua idea.

Avrei voluto provare il brivido di essere il primo ad avventurarmi nell’Oceano Pacifico, il primo a vedere tutte quelle meraviglie, gli orribili mostri che la tradizione narrava si trovassero in quel mare (a dir la verità qualche sospetto che fossero tutte fole si era già fatto strada, in fondo gli antichi aedi, i primi storici, persino i filosofi avevano popolato anche il Mediterraneo di esseri mitologici di cui già i romani avevano fugato ogni possibilità di esistenza chiamando quel mare Mare Nostrum, un mare che conoscevano come le loro tasche, con tutto ciò che vi esisteva).












Anche l’ipotesi che ivi si trovasse la sede del Purgatorio, un’idea cara a Dante e ai dotti medioevali, circondata da gorghi paurosi che trascinavano ogni imbarcazione e perdevano ogni uomo, cominciava a non essere più considerata una certezza assoluta, ma nessuno ancora era uscito a verificarla ed era tornato a raccontare la sua impresa.

Dovette mancare il coraggio a ciascuno di quei 90 uomini circa che si imbarcarono su quelle navi, quando partiti dalle Canarie si trovarono in mare aperto verso l’ignoto, senza alcuna terra in vista e senza sapere se e quando ne avrebbero vista un’altra.
Avrei voluto vivere la gioia immensa di quella notte del 12 ottobre del 1492 quando il marinaio di vedetta sulla Pinta, Rodrigo de Triana, avvistò la terra e avvisò i suoi compagni con tutta la voce che poté dispiegare; mi sarebbe piaciuto immergermi in quello che fu definito da quei primi europei come un nuovo Paradiso terrestre, osservare quegli uomini con caratteristiche somatiche, con vestiti, costumanze e modi di vivere molto diversi da quelli che vigevano nell’Europa fra il XV° e il XVI° secolo.
Mi avrebbe appassionato cercare di comunicare con gli inquilini di quelle terre, comprendere il loro pensiero, il suono delle loro parole, esplorare quelle terre incognite, scoprire la flora e la fauna del tutto sconosciute e dotate di forme e di colori molto più strani e sgargianti rispetto a ciò a cui erano abituati.

Mi deprimono però il Colombo e gli spagnoli che, riavutisi dalla sorpresa e dallo stupore, fanno emergere il vero motivo per cui hanno allestito tutta quella spedizione e investito 2.000.000 di maravedí, pari a circa 18 kg d’oro; l’idea era quella di aprire una via per l’Oriente passando per l’Occidente, eludendo così il controllo turco che nel frattempo avevano invaso la città di Costantinopoli, punto d’arrivo sia della via delle spezie sia della via della seta.

Colombo cercava l’oro del Catai e del Cipango, di cui Marco Polo scrive fossero laminati persino i tetti delle case, il tesoro del Prete Gianni, e brillanti e smeraldi e rubini e perle opalescenti di cui si diceva fossero così abbondanti che quei selvaggi li ritenessero pietre vili e ne regalassero a profusioni ai visitatori di passaggio; ma, soprattutto, cercava le spezie, pepe, coriandolo, curcuma, cardamomo, zenzero, galanga, cannella, chiodi di garofano, cumino, dragoncello, macis, noce moscata, …, che nei mercati europei venivano battuti a prezzi superiori a quelli dell’oro, essendo molto richieste dalle cucine delle corti di tutta Europa, che gareggiavano nel consumarne a profusione che simbolo di potere e di ricchezza.

Il marinaio genovese non verrà mai sfiorato dall’idea che ciò in cui si era imbattuto non era l’Oriente, non il Catai e nemmeno il Cipango, e che queste terre non erano nemmeno tanto vicine, ma erano anzi tanto distanti che avrebbe dovuto attraversare un altro oceano, il Pacifico, per giungervi; è una pena vedere come passa da un’isola all’altra del centro America credendo che la successiva sarà quella giusta, che finalmente troverà le terre che stava cercando e con esse le immense ricchezze che non dubitava punto esistessero in quei luoghi.









I viaggi successivi, il tentativo di fondare una colonia e di sfoggiare come una veste sgargiante il titolo acquisito di almirante don Cristóbal Colón, Grande Ammiraglio del mare Oceano, Viceré e Governatore delle isole da lui scoperte nelle Indie, il suo barcamenarsi fra le richieste di tesori dalla corona, che erano impellenti per la dispendiosa vita di corte, per risollevare la Spagna dal deficit economico in cui si trovava per aver sostenuto ingenti spese per la sua riunificazione e per la “cacciata dei Mori”, e le difficoltà che incontrava nel Nuovo Mondo, la diffidenza e l’invidia da cui era circondato, il trovarsi a gestire frotte di raccomandati, di arrivisti, di nobili boriosi che mal tolleravano che un plebeo, marinaio nemmeno di sangue spagnolo, avesse potere su di loro e la sua manifesta incapacità organizzativa, perché spesso i sognatori e gli ardimentosi non sono le persone più indicate per consolidare le loro conquiste.

Ho sempre invidiato gli esploratori, i viaggiatori, gli scienziati, i pensatori, gli scrittori e i poeti che si sono trovati davanti ad una cosa inedita, mai vista, qualcosa che nemmeno sospettavano o che pur sospettandolo non erano certi di incontrarlo, non proprio loro, non in quell’istante in cui non se l’aspettavano.

Esplorato del tutto il pianeta terra (quale grande illusione), scoperti tutti i continenti, le terre, le isole, gli isolotti, mappato qualsiasi scoglio esistente, svelato il mistero del punto fijo o del calcolo corretto della latitudine e della longitudine in assenza di punti di riferimento visibili, conosciuti tutti i popoli che vivono nel nostro pianeta, catalogate la stragrande maggioranza di piante e di animali, messo il primo piede persino sulla Luna e mandate sonde sia su Venere che su Marte, che sono diventati soltanto degli enormi globi di arida materia e l’universo intero è soltanto massa ed energia in movimento, senza più alcuna poesia, scandagliati gli arcani principi che reggono la materia, il microcosmo come il macrocosmo, le leggi matematiche che permettono il funzionamento dell’intero sistema, cosa rimane ancora da sapere? Quali sono le nuove frontiere del sapere e della conoscenza?

Certo, per chi volesse indagare c’è sempre un al di la da scoprire, la scienza moderna è passata dalla progressiva accumulazione del sapere, come approssimazione infinita alla verità, ad una sempre più complessa articolazione delle domande e delle tecniche di indagine e di trasformazione del mondo, senza più alcun collegamento con la verità, o conseguendo soltanto verità temporanee che ci permettono di fare cose e di relazionarci al mondo cosi come ce lo rappresentiamo di volta in volta con una certa efficacia.

Non esiste, né esisterà mai la fine dell’esplorazione del globo terrestre, né l’ultima parola dell’antropologia, della sociologia, della fisica, dell’astronomia, della medicina, della biologia, non cesseremo mai di sviluppare la tecnica e la tecnologia, nonostante si sia profetizzata la fine della filosofia, per fortuna molti filosofi moderni non ne sono stati informati, e anche se crediamo che sia stato detto e scritto tutto, che ogni emozione e ogni sentimento siano stati scandagliati e sezionati dai romanzieri e dai poeti, si continuano a scrivere romanzi e poesie che ci mostrano un punto di vista inedito e angolazioni emotive che non avevamo mai provato.









Seppure i confini del potere della mente umana nel produrre sapere e conoscenza mi avessero entusiasmato negli anni, se ho provato uno stupore immenso per ogni primigenia e vergine scoperta, per l’inaspettato e per l’inviolato, per tutto ciò che si cela agli occhi e alla mente e si rivela solo a chi sa osservare, alla fine mi sono sentito sempre più attratto dalla stessa mente umana e non da ciò che conosce, dal suo funzionamento intrinseco e non soltanto dai suoi prodotti nei vari ambiti dello scibile umano.

Ma non mi bastava comprendere come opera la mente umana studiando semplicemente le sue funzioni, come fa uno psicologo generale che seziona le funzioni della mente (memoria, apprendimento, sensazione, percezione, motivazione, coscienza, condizionamento, linguaggio, pensiero, intelligenza, emozioni, …), mi interessava comprendere la mente quando non sa di essere operante, quando funziona in modo inconscio e procedurale, quando letteralmente non sappiamo cosa stiamo facendo né perché lo stiamo facendo, quando nel nostro agire, nel nostro pensare e nel nostro essere predominano gli automatismi, le sensazioni e le emozioni più profonde.

Inoltre, mi piaceva e mi piace ancora capire come la mente si pensa pensante, come ci cogliamo mentre siamo, come avviene l’autocoscienza, cosa fa si che noi siamo in alcuni momenti presenti a noi stessi e abbiamo perfettamente chiaro chi siamo noi, chi sia l’altro e che tipo di relazione sta intercorrendo fra di noi.











“Frontiere? Non le ho mai viste, ma ho sentito dire che esistono nella mente di alcune persone”, così disse Thor Heyerdahl, antropologo, esploratore e regista di pellicole sui viaggi e, certamente, pensando a tutti i muri, i confini, le separazioni fisiche e mentali che ci creiamo, non riusciamo a dargli torto.

Ma è anche vero che non esisterebbe esplorazione senza confini, non esisterebbero Stati senza frontiere, non esisterebbero persone senza i contorni fisici e psicologici di un Io, non esisterebbero oggetti che non emergano differenziandosi da uno sfondo; le frontiere sono sempre state linea di individuazione fra l’Io e il Tu, fra il Noi e il Voi, colonne d’Ercole fra il mondo conosciuto e l’ignoto, fra familiarità e spaesamento, fra il lecito e l’illecito, fra il possibile e l’impossibile, fra ciò che può essere detto e l’indicibile.

Ercole in una delle sue dodici fatiche giunse agli estremi confini occidentali dell’Africa e dell’Europa, separò in due un monte ivi presente (il Calpe e l’Abila) creando così due grandi colonne che si stagliavano sull’oceano e vi incise la scritta: “Nec plus ultra”; gli antichi greci, che pure si distinsero per la loro curiosità e per il loro girovagare in Egitto, in Babilonia, in Persia, in India e dovunque vedevano ardere la fiaccola del sapere, istituirono una netta linea di demarcazione fra la loro civiltà e tutte le altre, definite complessivamente barbare, cioè incapaci di articolare un discorso denso di significato, che blaterano cose senza senso.

Alessandro il macedone, che brama la conquista di tutto ciò che esiste, solo perché esiste, è la degenerazione del pensiero greco: con Alessandro entrano nella cultura occidentale l’anelito verso l’assoluto e il concetto di storia; i romani saranno l’espressione di un delicato equilibrio fra la saggezza greca e la follia barbara di Alessandro, conquisteranno molto, ma tralasceranno tutto ciò che è talmente barbaro da non giustificare lo sforzo di una conquista (in Britannia tracciano il “vallo di Adriano” per tagliare fuori i Caledoni, considerati troppo “zotici” per far parte dell’Impero e per avere il privilegio di essere conquistati).










Mentre nella Bibbia è scritto: “Perciò il Signore Iddio cacciò Adamo dal giardino di Eden, perché coltivasse la terra dalla quale era stato tratto; e dopo averlo cacciato, pose davanti al giardino di Eden i Cherubini e la fiamma della spada guizzante, per impedire l’accesso all’albero della vita” (Genesi, 3, 23-24); il nutrirsi dei frutti dell’albero proibito del bene e del male crea divisioni in tutto ciò che in precedenza era integro: fra candore e pudore (per la prima volta si accorgono di essere “nudi” e ne provano vergogna), fra l’uomo e la donna (Adamo accusa subito Eva, mentre Dio sembra accusare Eva direttamente della trasgressione, accusa Adamo solo di aver dato ascolto alla donna, e traccia netti confini con tanto di Cherubini con la spada guizzante di guardia, fra l’eden che dovrà essere riconquistato e le tribolazioni di una vita di dolore, di sofferenza e di stenti e, infine, non è proprio chiarissimo questo punto, ma sembra togliere all’uomo l’immortalità perché egli ritorni ad essere quella polvere che era.

I confini, dovunque esistano ... ed esistono ovunque, anche dove non si vedono e quelli che non si vedono sono i più insidiosi ..., servono ad identificare, a delineare, a delimitare, a dare senso all’esperienza; appartengono indissolubilmente a quel doppio movimento umano, che è anche il paso-doble con cui danza la natura, che dagli antichi filosofi greci venne denominato essere, contrapposto al divenire, che Goethe denominò la sistole e la diastole, che Hegel descrisse nella dialettica fra il servo e il padrone e più in generale nel percorso che compie lo “Spirito” (o l’Assoluto) a riappropriarsi di sé attraverso l’autocoscienza, che Freud reinterpretò come contrapposizione fra inconscio e coscienza nella sua “prima topica”, che Lacan tratteggia nella sua dialettica fra il Soggetto e l’Altro, l’alternarsi di assimilazione e di accomodamento nell’epistemologia genetica di Jean Piaget, il concetto di espansione diadica della conoscenza dei ricercatori dell’Infant Research adottato dagli psicoanalisi relazionali e dai moderni psicologi viene chiamato talvolta assimilazione-accomodamento, auto-eco organizzazione, espansione diadica della coscienza.

Meritano una citazione le parole di Goethe:                                                              

«Gli osservatori fedeli della natura, per quanto diverso sia il loro modo di pensare in altri campi, saranno tuttavia concordi nell' ammettere che tutto ciò che appare, tutto ciò che si presenta come fenomeno alla sensibilità umana deve rinviarci o a una scissione originaria, capace però di ricomporsi, o a un' unità originaria, capace di sdoppiarsi. La rappresentazione che può esserne data può anche essere questa. Dividere l' unito e unire il diviso, è la vita stessa della natura, è l' eterna sistole e diastole, l' ispirazione ed espirazione del mondo in cui viviamo, ci muoviamo e siamo». (Wolfgang, J. Goethe, 1910, tit. or. Zur Farbenlehre, La teoria dei colori, Il Saggiatore, 2008).

Tutta quanta la scienza occidentale deriva da una scissione originaria, nell’etimologia stessa del termine rintracciamo che scièntia deriva da scièns, il participio presente di scire (sapere), che a sua volta deriva dal greco σχίσις (schisi) e dal verbo σχίζω (spaccare, rompere, spezzare, fendere, tagliare, lacerare, separare, dividere); non si da alcuna scienza senza separazione di un oggetto dal resto del mondo, si fa sempre scienza di qualcosa e questo qualcosa deve essere estratto dal magma indifferenziato del tutto, a forza, così come si produce la mozzarella di bufala spezzandola con le mani dalla cagliata e separandone piccole palline o componendola in trecce.

Persino la poesia, con la produzione di metafore e di poesie che suscitino sensazioni, sentimenti, nuove visioni delle cose e di noi stessi, necessita di dividere ciò che è indifferenziato e di unire, accostare, paragonare ciò che è diviso.









 “E tu, lieta e pensosa, il limitare/Di gioventù salivi?” esclama Giacomo Leopardi a Silvia, avrebbe potuto semplicemente scrivere “iniziavi la gioventù”, o usare una similitudine giocando con l’ambiguità del significato del termine “limitare” (inteso in senso figurativo sia come uscio, ingresso, entrata, sia come verbo transitivo di circoscrivere o porre un determinato limite, restringere o diminuire), per cui Silvia sarebbe stata sull’uscio della sua giovinezza, sull’orlo del suo fiorire come donna, al limite fra i confini che circoscrivono la fanciullezza dall’età adulta come le mura di una casa.

“Salivi”, poi, è molto interessante, perché non ha soltanto il significato di varcare e di oltrepassare un confine, ma esprime il nucleo paradossale di tutta la poesia dedicata a questa sfortunata ragazza e quello di tutto il suo pensiero: la Natura ci inganna con false promesse e vane speranze, ci colma di dono caduchi come la giovinezza e la bellezza, siamo lieti e colmi di auspici nell’attesa della nostra felicità, e quando ci troviamo sul “limitare”, sulla soglia stessa dell’attesa, sull’orlo del senso della nostra vita (“all’apparire del vero”), invece di “salire” a Silvia succede di cadere (“cadesti: e con la mano/la fredda morte ed una tomba ignuda/mostravi di lontano”), mentre allo stesso Giacomo una mano rapace lo privò all’improvviso della sua giovinezza e delle gioie della vita.

Ma Leopardi è magistrale, forse, più da giovane che quando è in la con gli anni, sul tema dei confini, di frontiere non sono mai stati scritti versi più belli del suo Canto XII, L’Infinito:


Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mare.


Chi è mai stato a Recanati e ha voluto visitare l’ “ermo colle” sarà rimasto stupito e forse deluso dalla collina che ha ispirato una delle più belle poesie di tutti i tempi, non c’è niente di poetico, di titanico, di abissale sia nel punto di osservazione da cui Giacomo guardava, sia nel paesaggio che vi si può osservare (anche eliminando gli orrendi capannoni agricoli che sono stati costruiti in tempi più recenti).

Come possano essere stati distillati dei versi tanto freschi e cristallini da un panorama cosi prosaico e anonimo? Ma sta proprio qui la forza poetica, nel trasfigurare il reale, nel trasformare una insignificante collinetta in un punto visuale da cui poter scorgere in lontananza il proprio futuro, collocare le proprie aspettative di felicità, porvi la sede dell’infinito e il dominio dell’eterno.






... D'INTENDERE & VOLARE 1 (VOYAGES AUX PAIS DE NULLE PART)

$
0
0





“Im Abgrund wohnt die Wahrheit”

Nell’Abisso abita la verità.

(Johann Christoph Friedrich von Schiller, 1759 – 1805, Sprüche des Konfuzius, 1799).








“E tacciono, perché sono abbattute

nelle loro menti le barriere,

e le ore in cui si potrebbe comprenderli

vengono e vanno.


Spesso a notte, affacciati alla finestra,

tutto ritrova a un tratto il giusto senso.

La loro mano poggia sul concreto

E il cuore è alto e vorrebbe pregare,

e gli occhi in pace guardano


nel recinto ormai calmo l’insperato

giardino tante volte sfigurato

che nel riverbero di mondi ignoti

continua a crescere e mai non si perde”.

(Rainer Maria Rilke, Nuove poesie, I folli, 129).








Da bambino ero sempre irrequieto, smanioso, tutto mi stava stretto, il mio lettino, la mia cameretta, la mia casa, il mio quartiere, il mio paese, la Sicilia intera e non sono mai riuscito a sopportare un maglione col collo alto, nonostante qualcuno abbia provato a regalarmene di molto belli.

Ricordo una volta, avrò avuto quattro anni e non di più, eravamo passati con mia madre da un negozio di giocattoli, guardando la vetrina mi ero innamorato di un oggettino, ma mia mamma non aveva i soldi per regalarmelo; più tardi, messa insieme la cifra che mi occorreva, ho ripercorso la strada a ritroso, ho ritrovato il negozio, ho acquistato il mio regalo (non so se i soldi fossero sufficienti, ma il negoziante me l’ha venduto lo stesso) e ho creato una certa inquietudine a casa mia, perché per più di un’ora non mi trovavano più da nessuna parte, poi mi sono ripresentato col giocattolo in mano e mia mamma ha capito che ero andato da solo in Piazza Teatro, a più di un chilometro da casa mia, ed ero tornato con l’oggetto che desideravo, tanto che ha pensato: “Questo figlio non lo devo sottovalutare!”.

Non mi spaventava esplorare mondi per me sconosciuti (e Piazza Teatro lo era, pensate a quanto il mondo di un bambino sia infinitamente più grande di quello di un adulto, quanto più ampia sia la sua casa, quanto più esteso il quartiere dove abita, quanti passi deve fare in più un bambino rispetto un adulto per coprire quel chilometro abbondante che era la distanza fra quella che allora era la mia casa e la piazza), anzi mi attraeva oltre ogni limite, non stavo mai fermo, anche per mangiare non riuscivo a stare seduto a tavola, tutto ciò che non conoscevo o che conoscevo poco mi attraeva, e costringevo mia mamma a girare per tutto il quartiere col piatto in mano, cosa che non aveva fatto con nessuno dei miei due fratelli maggiori.

Per ciò che riguarda l’educazione all’igiene, invece, mia mamma era molto più rigida, molto precocemente mi aveva abituato a usare il wc, e la questione non si discuteva, per fortuna che mie zie, le sorelle di mio padre, che abitavano nelle vicinanze, erano molto più tolleranti in proposito, perché è importante per un bambino poter decidere il momento e opportuno e il luogo che più gli aggrada, per liberarsi delle sue scorie, che ancora concepisce come dono, insomma, è importante per un bambino poterla fare dove e quando più gli aggrada, o quasi, è importante che possa negoziare le sue esigenze con quelle della madre e con le regole dell’esistenza civile.

Qualche decennio fa i pediatri consigliavano alle neo-mamme di fornire pasti ai propri bambini ad orari regolari, per abituare i suoi bioritmi quanto più velocemente possibile a quelli degli adulti; oggi quasi più nessun pediatra vi darà un consiglio simile.

L’Infant Research, costituita da gruppi di psicologi che osservano il bambino in interazione col suo mondo, hanno osservato che il bambino accorda più facilmente i suoi bioritmi a quelli degli adulti (i suoi caregivers) molto più in fretta e molto più saldamente se è nutrito non secondo orari predeterminati, ma a richiesta, cioè ogni volta che piange perché ha fame.








Se tu nutri tuo figlio ogni quattro ore è possibile che il bambino non incontri mai la sua fame, non si riconosca mai affamato, non sappia mai che la nutrizione fa parte integrante del suo essere al mondo ed essere vivo; se, invece, lo nutri quando te lo chiede, gli dai il tempo di sentire la fame e lo riconosci come bambino affamato, gli riconosci il bisogno di essere nutrito, solo a partire da questo riconoscimento il bambino può accordare i suoi bioritmi ai tuoi, e lo fa spontaneamente.

Bisognerebbe applicare questa semplice constatazione a tutti gli ambiti dell’educazione di un bambino ed anche al rapporto fra adulti, solo lasciando essere un altro ciò che è possiamo pensare di creare un rapporto profondo fra lui e noi.

Dovevo essere anche l’unico bambino che costringeva gli adulti a variare di volta in volta il testo delle favole che mi leggevano prima che mi addormentassi, non mi piaceva sentire sempre le stesse cose, volevo che cambiassero i particolari, che modificassero il finale, volevo che inventassero invece di leggere semplicemente.

Invece agli altri bambini sembra non piaccia affatto che si cambi una sola virgola del ”sacro” testo scritto dai fratelli Grimm, la favola va letta così come è stata scritta, senza divagazioni e senza modifiche, e va letta fino alla nausea e allo sfinimento dell’adulto che legge e del bambino che ascolta.

C’è in tutto questo, forse, un tentativo di imparare a padroneggiare l’angoscia che alcune favole suscitano nel bambino, Pollicino ad esempio evoca il timore dell’abbandono, Biancaneve quella della cattiva madre, la Bella Addormentata quella della morte, Cenerentola e il Brutto Anatroccolo quella del figlio indesiderato, umiliato, sminuito, sfruttato, ….

È importante per un bambino sentire che Pollicino ritroverà la strada e i suoi genitori che, non più in condizioni di indigenza, possono ora amarlo, Biancaneve e Cenerentola si salveranno dalle nere trame della strega cattiva e della matrigna e sposeranno un principe bellissimo e ricchissimo, la Bella Addormentata si risveglierà in seguito al bacio di un altro principe (che nelle favole abbondano, quando pensi di aver trovato il migliore, che so il Principe Azzurro, ecco che ne spunta un altro ancora più bello, ancora più nobile e ancora più ricco in un’altra fiaba), il Brutto Anatroccolo diventerà un bel cigno.








Quando ho iniziato a leggere da solo, prima dell’età scolare, perché non potevo più aspettare, volevo bere dai miei occhi alla fonte più seducente che accendeva la mia fantasia, ho divorato tutto ciò che trovavo in casa, tutto ciò che trovavo a casa dei miei zii, i fumetti che compravamo miei fratelli e i miei cugini, le riviste di moda delle mie cugine.

Poi, in età scolare, leggevo il giorno stesso dell’acquisto o nei due immediatamente successivi il libro di lettura e il sussidiario, per il resto dell’anno scolastico li degnavo appena di uno sguardo, e quasi solo esclusivamente quando avevo delle poesie da mandare a memoria, operazione che odiavo e che per un certo periodo di tempo mi ha fatto odiare la poesia, poi passavo subito a leggere cose più interessanti.

Libri, fondamentalmente di avventure, Gengis Kahn, Ventimila leghe sotto i mari, Viaggio al centro della terra, le Avventure di Aladino, il Giro del mondo in 80 giorni, il Richiamo della foresta, la Capanna dello zio Tom, il Piccolo principe, i Ragazzi della via Paal, Senza famiglia, l’Isola del tesoro, le Avventure di Tom Sawyer, le Avventure di Huckleberry Finn, le Tigri di Mompracen, il Libro della jungla, il Conte di Montecristo, i Tre moschettieri, Pinocchio, i Pirati della Malesia, i Viaggi di Sindbad, i Viaggi di Gulliver, Zanna bianca, ….

Libri gialli, che però non mi entusiasmavano molto e che leggevo solo in mancanza d’altro e in estate quando il tempo a disposizione era maggiore, l’enciclopedia Conoscere, illustrata, che ho dragato in lungo e in largo, assorbendovi la storia, le scoperte scientifiche, esistenza usi e costumi di popoli lontani, e molte altre cose, fumetti di ogni genere, anche per adulti, catturati ai miei fratelli che erano più grandi di me, Topolino, Tex Willer, Il comandante Mark, Zagor, Blek Macigno, Moby Dick, Capitan Miki, L’Intrepido, Il Monello, ho provato persino a leggere la Divina Commedia, l’Iliade e l’Odissea.

Altri libri nella biblioteca di casa mi sembravano molto ostici, prematuri e vagamente noiosi, tutti i libri di poesia che trovavo soporiferi e che avevo il terrore di dover mandare a memoria, perché credevo che la poesia fosse solo da memorizzare, come il proprio nome e cognome, indirizzo, numero di telefono, saggi di ogni genere, libri politici (non riuscivo nemmeno a spostare il Capitale di Marx in edizione integrale), romanzi che allora mi apparivano sdolcinati come Anna Karenina, Guerra e pace, Padri e figli, il Placido Don, Eugenio Onegin, la Figlia del capitano, i Fratelli Karamazov, l’Ultimo dei Mohicani, i Demoni, Delitto e castigo, i Miserabili, Notre Dame de Paris, l’Età della ragione, la Nausea, alla Ricerca del tempo perduto, l’Ulisse, Tenera è la notte, il Grande Gatsby, i libri d’arte e i quotidiani, mentre mi perdevo letteralmente nei libri del Touring, leggendo nomi di luoghi che avrei visitato solo molti anni dopo e che all’epoca erano altrettanto fiabesche per me di Atlantide, di Agarthi, di Camelot, di Iperborea, di Xanadu, di Sangri-La, del Tartesso e delle sette città di Cibola, mentre altri non li ho mai visti da vicino.

La televisione mi attirava poco, c’era una specie di scatoletta alla base in cui accendevi un pulsante e bisognava aspettare quasi un quarto d’ora prima di iniziare a vedere delle immagini, mi annoiavano i notiziari, i tv, gli approfondimenti, le tribune elettorali, i programmi musicali e di intrattenimento, ricordo con piacere solo l’Odissea di Franco Rosi con Bekim Fehmiunel ruolo di Ulisse (si trattava di una replica), di cui non mi perdevo una puntata, ricordo Zorro, Tarzan, Pippi Calzelunghe, Michele Stroghoff, Furia il cavallo del west, Orzowei, Sandokan,  la Famiglia Bradford, Pinocchio, e Goldrake, il primo cartone animato giapponese.








Poi mi piaceva moltissimo stare ad ascoltare le storie antiche della mia terra, la mia fonte principale era mia nonna materna, che negli ultimi anni di vita abitava in casa con noi, anche i miei zii contribuivano molto a raccontarmi le storie del passato, più raramente i miei genitori da bambino, mentre molto più tardi, prima che morissero, sono stato ad ascoltare la storia di famiglia e antichi avvenimenti di persone che non ho neanche mai conosciuto, oppure qualche anziano vicino di casa o, ancora, nelle botteghe artigiane che ancora esistevano quando io ero piccolo, come il falegname, il vetraio, il calzolaio, la sarta, il vinaio, il “salaro”, il pizzicagnolo, il gelataio d’estate e “cassatinaio” d’inverno, il venditore d’olio, il cartolaio, il meccanico, il biciclettaio …

Mio padre era un proprietario terriero, ha prodotto per anni mandorle e limoni delle migliori qualità, poi negli anni 80 ha messo su uno stabilimento dove veniva estratta l’essenza di limoni, arance, mandarini, bergamotti, dei fiori di zagara, da utilizzare in profumeria, il succo degli agrumi andava alle aziende che producono bevande e la polpa una parte andava alle aziende che producono confetture di agrumi e il rimanente andava ad integrare la dieta degli animali da allevamento, fondamentalmente mucche e maiali.

Durante tutto l’arco dell’anno mio padre rispettava gli impegni scolastici e lavorativi di noi tre figli (i miei fratelli, entrambi più grandi di me, hanno iniziato a lavorare quando io ancora andavo a scuola), raramente nei mesi da settembre a luglio richiedeva il nostro aiuto, ero soprattutto io a dargli una mano quando c’erano i periodi critici del raccolto dei limoni e serviva qualcuno di fiducia che controllasse le pesate e sovrintendesse ad alcuni lavori, e quando avevo bisogno di qualche soldo extra.

Però in agosto non intendeva sentire ragioni, per tutto il mese (e anche oltre talvolta) si raccoglievano le mandorle, sotto il sole a picco, con temperature da deserto africano, con la polvere del mandorlo che ti cadeva addosso per ogni colpo di canna o di forcone che davi per bacchiare i rami, col sudore profuso e i pidocchietti della pianta che ti torturavano la pelle, con la corteccia di mandorli secolari che sembrava carta vetrata quando ti avvicinavi, ed eri costretto non solo a farlo, ma anche a salirvi sopra se volevi raccogliere anche le mandorle dei rami alti interni, in agosto tutta la famiglia al completo doveva essere in campagna a raccogliere le mandorle.

Ed era una festa perché c’era la famiglia allargata, zii, zie e cugini, oltre ai braccianti che erano necessari per un raccolto che interessava parecchi ettari di mandorleto, da effettuare prima delle piogge di settembre, perché la mandorla quando si spacca il mallo verde con i caldi di giugno e di luglio, non deve prendere acqua se no si formano delle muffe che ne alterano il sapore, ed è per questo che dopo il raccolto e dopo la sbucciatura dal mallo verde, le mandorle si stendono ad asciugare al sole del giorno e alla brezza marina secca della notte.

La mattinata di lavoro iniziava alle cinque del mattino, al primo albeggiare, una jattura per me che volevo godermi le vacanze estive e fare tardi con gli amici o con qualche ragazza, sarà per questo che da ragazzo per far quadrare il cerchio della mia esistenza prendevo molti caffè ogni giorno, soprattutto la sera e che poi finita la stagione dormivo anche 12 ore per notte, e si protraeva fin quasi a mezzogiorno, quando la vampa di agosto diventava insopportabile e non era più consigliato proseguire all’aperto.









A quel punto i braccianti venivano congedati e rimanevano solo i familiari, si apparecchiava un tavolato sotto le fronde dell’ulivo più antico, studiandola in modo da avere sempre l’ombra nonostante lo spostamento della terra rispetto al sole, si pranzava e nel pomeriggio si iniziava a sgusciare le mandorle privandole del mallo verde e selezionandole per categorie.

Mio padre produceva fondamentalmente tre qualità di mandorle: la pizzuta, la più grande e la più pregiata, di forma lanceolata, da cui il nome, che dava frutti di forma perfetta in un solo spicchio adatti soprattutto per fare i confetti; la fascionello, più piccola e tozza, spesso con spicchio doppio, adatta per ogni uso, dai piatti tipici della cucina iblea alla pasticceria e alle bevande come il latte di mandorla, alla romana, più grande della precedente e più rotonda, destinata soprattutto alla pasticceria per la qualità e il sapore dei suoi oli essenziali che rendono ogni dolce a base di mandorla unico nel panorama mondiale.

Si iniziava la mattina ad intonare canti, stornelli e motteggi divertenti, si cantava e si rideva per non sentire il caldo, la fatica, il dolore di qualche mandorla che ti cadeva addosso nonostante i bacchiatori stessero molto attenti ad evitare traiettorie dove potevano trovarsi altri bacchiatori o raccoglitori, si andava a tempo col frinire delle cicale, si narravano vicende antiche ed altre più recenti, tragiche o divertenti, auliche o popolari, costumate o licenziose … era la cosa che mi rendeva tollerabile e persino interessante e divertente il dover sacrificare ogni agosto della mia vita per 22 anni dalla mia nascita alla raccolta delle mandorle.

Poi, nel pomeriggio, quando ci si trovava fra di noi al fresco dei rami d’ulivo, il discorso diventava più intimo, e meno popolare, sboccato e licenzioso, allora si iniziavano le storie di famiglia e le varie vicende di ogni genere accorse a questo o a quell’esponente della mia stirpe, si raccontavano cose che era bene fossimo solo noi esponenti a sapere e alcuni segreti venivano svelati anche ai piccoli che stavano crescendo, avevi l’impressione che ciò che è accaduto ad uno fosse accaduto a tutti, ciò che riguardava uno riguardasse tutti, esattamente come eravamo tutti a raccogliere e a sgusciare le mandorle che erano della mia famiglia, ed eravamo ancora tutti a dare una mano quando i miei zii raccoglievano gli ortaggi o la frutta dalle loro terre.

Il mio eroe preferito era, senza dubbio alcuno, Ulisse, la mitologia greca antica proponeva tre tipi di eroi principali, oltre a tutta una serie di eroi secondari, il primo era Achille, forte e invincibile, l’eroe che predominava sempre, che superava tutti quanti in forza, abilità e coraggio, l’atleta perfetto, veloce nella corsa, letteralmente micidiale, ma è estremamente altero e permaloso, oltre persino a come dovrebbe essere un vero mito greco, e muore molto giovane dopo aver ottenuto gloria imperitura e aver provato l’amore profondo.

Poi c’è Ettore, l’eroe dal volto umano, quello per cui il coraggio non è soltanto valutazione della sua forza, ma vittoria sulla sua paura e accettazione del suo destino, guardate Ettore mentre rimprovera il fratello Patroclo di viltà, guardatelo sulle mura mentre si congeda dalla moglie e dal figlio, quando si toglie il cimiero che spaventa il bambino e lo prende in braccio per l’ultima volta, guardatelo alle porte Scee mentre aspetta Achille, in quel susseguirsi di ondate di fermo coraggio e di umana paura.










Infine, c’è Ulisse, è forte, è bravo, è abile, anch’egli ha superato prove che l’hanno reso famoso fra i suoi simili, ma non è il più forte, non è il più abile, non è il più coraggioso, Ulisse però possiede il suo grandioso ingegno, in quello non lo batte nessuno, dove non arriva con le sue forze, con le sue abilità, col suo coraggio, ci arriva con la sua mente, con la sua abilità ad architettare stratagemmi e a tessere inganni.

Non si conquista Troia con la forza, dieci anni di assedio e i migliori eroi dell’Ellade non sono bastati, se non fosse stato per quel suo cavallo … pensateci, sono gli stessi troiani a perdersi, loro stessi che introducono la rovina dentro le loro mura, quando un’intera armata achea e l’aiuto degli dei maggiori non fu sufficiente.

Nessun mortale poteva mai vincere l’ira di Poseidone, il dio del mare, dei fulmini, delle tempeste, quello che scuoteva la terra in spaventosi terremoti, ma non si poteva vincere nemmeno il ciclope Polifemo, enorme ed orribile gigante con un occhio solo, che nulla pareva avesse di umano e che iniziò a decimare i compagni di Ulisse nel più orribile dei modi, mangiandoseli; eppure Ulisse ha il sangue freddo e la sagacia di ingannare anche questa forza della natura e di uscire così incolume lui e i suoi compagni superstiti.

Non si può uscire indenni dalle spire di due figure femminili potenti e dotate come la maga Circe e la ninfa Calipso, le donne, si sa, ne sanno una più del diavolo, ed anche i greci antichi sembravano crederlo e per sincerarsene dovremmo leggere le pagine dell’Odissea (Libro V) quando Elena cerca di svelare l’inganno di Ulisse imitando le voci delle spose degli achei, che questi non vedono da un decennio e che lei conosce alla perfezione… c’è mancato poco che quegli uomini si tradissero e che lo stratagemma si ritorcesse contro chi l’aveva ideato.

Non si può non rimanere estasiati dal canto delle sirene fino a perdersi e a naufragare, né avere il coraggio di andar via dalla terra dei lotofagi, estasiati dalle loro sostanze stupefacenti che facevano dimenticare la terra, gli affetti, i doveri e gli affanni e non si possono mangiare i buoi bianchi sacri ad Iperione, il dio del sole, e uscirne indenni, né si esce indenni dai gorghi di Scilla e Cariddi o dalla discesa nell’Ade dopo aver interrogato i morti.

Non si possono vincere i proci, che erano 108, ed erano tutti più giovani e vigorosi di lui, e che in quel ventennio che lui era mancato si erano creati una rete di alleanze ad Itaca, mentre Ulisse aveva perso tutti i suoi compagni in guerra e nella sua isola poteva contare solo su pochi e fidati alleati; non si può vincere la diffidenza riguardo alla fedeltà della sua sposa, del proprio figlio e su quanti un tempo considerava amici e fratelli, se non con la trappola, con l’inganno, col costringere l’altro a svelarsi, a offrirsi in condizioni di inferiorità o a mostrarsi disarmato.








Ma la cosa che mi attraeva di più in Ulisse era la sua immensa curiosità, che sfidava tutti i pericoli e sfidava persino gli dei, qualche anno dopo, ormai ragazzo e liceale, ho letto e riletto estasiato i versi che Dante gli dedica nell’Inferno ( XXVI°, vv. 112-120):


« "O frati," dissi, "che per cento milia

perigli siete giunti a l'occidente,

a questa tanto picciola vigilia


d'i nostri sensi ch'è del rimanente

non vogliate negar l'esperïenza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.


Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza". »


Dante comprende che Ulisse non è uno che possa starsene in un’isola con la moglie e col figlio ormai adulto, a rammendare reti da pesca o a coltivare la vite per bere del buon vino greco; Ulisse non si nutre solo di pesce e di vino, ma di salsedine e di tempesta, e vuole solo il mare e l’orizzonte davanti a sé … e quale orizzonte migliore che quello che gli si spiana davanti al di la delle Colonne d’Ercole, al di la del mondo allora conosciuto, al di la del confine fra civiltà e l’incognito?




IL TUO NOME DI BATTAGLIA ERA PININ, E IO ERO SANDOKAN!

LA CORRISPONDENZA 2

$
0
0





“E chi mi impenna, e chi mi scalda il core? | Chi non mi fa temer fortuna o morte? | Chi le catene ruppe e quelle porte, | Onde rari son sciolti ed escon fore? | L'etadi, gli anni, i mesi, i giorni e l'ore | Figlie ed armi del tempo, e quella corte | A cui né ferro, né diamante è forte, | Assicurato m'han dal suo furore. | Quindi l'ali sicure a l'aria porgo; | Né temo intoppo di cristallo o vetro, | Ma fendo i cieli e a l'infinito m'ergo. | E mentre dal mio globo a gli altri sorgo, | E per l'eterio campo oltre penetro: | Quel ch'altri lungi vede, lascio al tergo”.

(Giordano Bruno, De l’infinito universo e mondi, dall'epistola, 1584).





“La seduzione non è per il luogo del desiderio. E’ quello della vertigine, dell’eclissi, dell’apparizione e della sparizione”.

(Jean Baudrillard, Della seduzione).





“Una mobilità meravigliosa, incantevole, una vivacità aerea: il gatto. […]. Ogni seduzione è felina. Come se le apparenze si mettessero a funzionare da sole e a concentrarsi senza fatica. […]. Felinità delle apparenze. Niente se ne scatena, tutto vi s'incatena. Perché la felinità non è altro che la concatenazione suprema del corpo e del movimento.[…]. Soltanto il gatto lascia sulla sabbia o sul letto l'impronta totale del suo corpo addormentato. L'uomo non sa abbandonarsi alla forma del suo corpo, in modo da poter provare un abbandono totale. Non conosce l'inerzia da cui il gatto trae la sua felinità, la sua vivacità, la sua crudeltà formale. Non conosce questa elasticità mistica, la dissoluzione del corpo nelle sue diverse membra, che permette al gatto di cadere senza sfracellarsi al suolo. Poiché ogni parte in sé è leggera, è la pesantezza dell'insieme che ci perde”.

(Jean Baudrillard, Cool memories).





Si potrebbe allargare la prospettiva delle impossibilità includendo agli ostacoli esterni quelli interni ad uno o ad entrambi i soggetti in questione, è così che per esempio diventa impossibile accedere all’amore se entrambi o soltanto uno dei due è affetto da una qualche psicopatia invalidante, in questo ultimo periodo più che l’eteromania sembra fari strada una nuova variante di psicopatologia sessuale che sembra avere più legami con la vecchia etichetta di isteria, che ormai non esiste più nei manuali di psichiatria e, pur essendo conosciuta molto di più nella sua accezione femminile, col nome di allumeuse, colpisce tanto gli individui di sesso maschile quanto quelli di sesso femminile.

Si tratta di una seduzione fine a se stessa, dove ciò che è più importante è la conquista e non il godimento o il possesso dell’altro o del suo corpo come nella seduzione classica, quella in stile Don Giovanni o Casanova per intenderci; ci si compiace nel suscitare il desiderio, senza coinvolgimento emotivo alcuno, conquistato il partner, questi perde immediatamente ogni fascino e ogni importanza, e viene lasciato così su due piedi e senza alcuna spiegazione.

Questo tipo di relazione sta sempre di più esulando l’ambito della psicopatologia e dell’eccezione, per diventare sempre di più il modello dominante di rapporto, in cui il partner maschile mette alla prova il proprio fascino e la propria potenza sessuale, mentre quello femminile testa l’effetto ammaliante che provoca nell’altro sesso e ne trae occasione di orgoglio.

In entrambi i casi il coinvolgimento affettivo è ridotto al minimo, l’amore e la passione per l’altro soltanto recitati ed anche in maniera grossolana, nutrendosi non di gesti spontanei ma di iperboli o di esagerazioni di gesti d’amore, di prove sempre più grandi ed impegnative, fino a raggiungere i limiti dell’impossibile, perché la voragine che dovrebbero nutrire e colmare è altrettanto ampia.





In questi rapporti non si costruisce nulla, non esiste progetto comune, non esiste vera reciprocità, ma soltanto pura e semplice funzionalità, l’altro è “amato” per ciò che rappresenta per me e non per ciò che è, dati questi presupposti, non stupisce che queste relazioni possano terminare all’improvviso così come sono sorti, senza un vero motivo nemmeno il più futile, e che non lascino gli strascichi di sofferenza e di dolore per la perdita che invece lasciano gli amori autentici quando finiscono.

Esiste soltanto il rammarico per ciò che non c’è stato, per ciò che non è mai successo, oppure quel senso di essere stato usato, strumentalizzato, manipolato, plasmato, ma non amato se non a parole e con gesti sostanzialmente privi di affetto.

Quando succede un evento simile non chiedetevi perché lei o lui non vi amano più, perché hanno smesso di amarvi, perché non vi hanno dato alcuna spiegazione per questa improvvisa chiusura senza appello o per questo gioco di avvicinamento/allontanamento che continuano a mettere in atto ma che voi non accettate più, chiedetevi perché voi siete entrati in un rapporto simile accontentandovi di un amore solo proclamato ma che non siete mai riusciti a sentire veramente.

Esistono anche casi in cui lui o lei od entrambi si portano dietro un grande amore, teoricamente finito, su cui c’è stata una separazione legale, un allontanamento fisico, il pronunciamento di un giudice ed eventuali misure cautelari, ma che in pratica l’ex partner è più presente ora di quando non era ancora ex, e che avete la sensazione di essere sempre in tre e mai in due, di vivere un triangolo e non in coppia.





Lo stesso avviene quando vi capita di incontrare persone ancora troppo legate alla loro famiglia di origine, i cui “fantasmi” entrano nella coppia sotto forma di abitudini, di divieti, di modi “giusti” di fare le cose, che condizionano pesantemente la libertà e l’autonomia della coppia e impediscono a questa di costruirsi veramente oltre i modelli imposti dal passato e dal transgenerazionale, impediscono che si trovi una via propria di modellare la coppia secondo il presente, le nostre interazioni e le nostre esigenze attuali.

La mia impressione, che ho comunicato al gruppo, durante quella discussione era che stavamo facendo dipendere troppo l’impossibilità di un amore da fattori interni od esterni in ogni caso non sottoposti alla volontà del singolo, alla sua autodeterminazione, alla sua capacità di investire affettivamente in un rapporto.

Certamente se qualcuno dei miei amici intraprendesse un rapporto con una donna sposata potrei sospettare un disimpegno da parte sua o da parte di entrambi, è in effetti più difficile investire affettivamente con una persona già legata ad un altro partner; lo stesso sospetto mi verrebbe se decidessero di non convivere, o di fare molte altre scelte che in genere fanno le persone che si amano.

Ma poi, ciò che mi darà la vera misura di che tipo di rapporto si sta instaurando, è soltanto il reciproco investimento affettivo, il valore che ciascuno da all’altro e al rapporto con l’altro, quanto ci tiene insomma, quanto riesce ad amarlo così com’è e quanto in definitiva tiene anche ai propri sentimenti, a ciò che prova lui per l’altro.





Quando un rapporto si avvia verso questa direzione, non ci sono ostacoli che non possono essere superati, non esistono distanze che non si possono colmare, differenze che non si possono superare, legami preesistenti che non possono essere sciolti, “fantasmi” parentali o amorosi che non possono essere seppelliti definitivamente; oppure, paradossalmente, si può decidere di lasciare tutto come sta e godersi ciò che si ha momento per momento, e non ciò che si vorrebbe avere, godersi i frammenti dell’altro, perché questi frammenti sono comunque molto appaganti, più di qualsiasi altro rapporto full-time passato o prevedibile.

Il rapporto fra Ed e Amy è di quest’ultimo tipo, ha tutte le caratteristiche per essere un amore impossibile, ma non lo è perché il loro reciproco investimento è fortissimo, non è esente da dinamiche psicologiche, ma non si esaurisce in esse, ad esempio è molto probabile che Amy si sia innamorata di un uomo tanto più vecchio di lei perché in egli vede la riedizione del rapporto con suo padre, un rapporto concluso tragicamente, con la morte di quest’ultimo in un incidente stradale.

Era lei a guidare, suo padre aveva avuto fiducia in lei e le aveva affidato la macchina, Amy non smetterà mai di colpevolizzarsi per quella morte e nel rapporto con Ed probabilmente cerca un nuovo “padre” che abbia ancora fiducia in lei, mentre nel suo lavoro di stunt-woman riedita infinite volte la scena fatale dell’incidente in cui lei rimane illesa perché ha avuto la prontezza di aprire la portiera della macchina e di catapultarsi all’esterno, si tratta di una sorta di ordalia in cui sfida la morte e in quella rinascita trova un senso per continuare a vivere e un motivo per cui lei è sopravvissuta.

Alla fine sarà la morte del nuovo padre Ed a farla rinascere, una morte in cui lei non ha alcuna colpa, e che le permetterà dopo varie esitazioni di affrontare l’ultima ordalia, una scena di un incidente d’auto che ricalca con precisione l’incidente vero accaduto anni prima, rimanere ancora una volta illesa, di riaprire gli occhi e seppellire il fantasma del padre nel ricordo, sgombrando il campo della sua vita affettiva.





Altro momento clouè un episodio in apparenza banale, l’avrà fatto molte volte, si sarà prestata infinite volte a prove come quella di rimanere chiusa senza fare alcun movimento in luoghi chiusi, come può essere un calco in gesso che un artista sta modellando sul suo corpo e sulla sua figura, ma stavolta è diverso, è sofferente, non ce la fa più a rimanere immobile dentro una figura plasmatale addosso da altri, dentro un modello rigido che la imprigiona e che la opprime, si muove e così facendo rovina il calco che sarebbe dovuto servire per modellare l’opera intera.

Ha trascorso tutta la sua vita ad essere come gli altri volevano che fosse, ha cercato di adeguarsi, ai suoi genitori, alla scuola, agli amici, ad Ed, ora avverte tutta l’insofferenza di questo plasmarsi ad immagine e somiglianza dei modelli che gli altri le offrivano, per la prima volta vuole essere libera e può farlo solo adesso che ha fatto i conti col fatto che l’amore non può essere condizionato ad essere in qualche modo, non può essere condizionato e basta.

Dovrà rischiare di perdere l’amore altrui se cerca di essere ciò che è, dovrà finalmente iniziare lei ad amarsi per prima se vuol essere amata per come è, solo allora si può rendere conto (come dice anche l’artista durante l’esposizione delle sue opere) che la Amy insofferente, quella che si muove e rovina il calco, può essere anche migliore di quella che tutti si attendono (infatti, l’artista alla fine conserva il calco “rovinato” e lo usa per realizzare l’opera finale, un’opera che risulta così quasi picassiana, con un volto stra-volto, con tre nasi e gli occhi sbiechi).

Le stelle che osservava con Ed molto probabilmente si erano spente da tempo, ciò che loro vedevano erano soltanto le scie di luce che giungono sulla terra quando chi le ha inviate non esiste più, anche il rapporto con suo padre prima e con Ed dopo è un rapporto virtuale con persone che non esistono più, con fantasmi, e quando hai a che fare con i tuoi fantasmi puoi avere almeno due alternative, la prima è quella comprensibile della paura, la prima reazione è quella della fuga, non vuoi vederli, scappi, ma siccome sono interni, sono dentro di te, non metterai mai la distanza che desideri fra te e loro, è così che sei destinato a viverli nella tua vita, travestiti da qualcos'altro, ma altrettanto invasivi di quelli che ti mettevano paura.




Oppure puoi affrontarli, puoi come diceva Lacan “attraversare il fantasma” (traversée du fantasme), viverlo fino in fondo, e non tanto per liberartene, perché non ci si libera del fantasma, quanto per non proiettarlo più sul tuo reale, devastandoti la vita, per tenerlo in quella riserva indiana che è l’immaginario, fonte di ogni creatività.

Nel film all’inizio è solo Ed che anticipa ogni mossa di Amy, e lei ne è stupita e contenta come una bambina, sente tutto l’amore di Ed in quelle attenzioni particolari, nella capacità del suo uomo di prevedere le sue mosse e perfino la realtà che vivrà da li a poco, coglie la presenza anche quando lui è assente, prima per la distanza e gli impegni, poi perché Ed muore e continua una relazione con Amy fatta di filmati registrati, di telefonate e messaggi che precedono o seguono ogni suo impegno importante, seppure con qualche svarione, ma pian piano, man mano che Amy matura e inizia a staccarsi dai suoi fantasmi può per un attimo non sentire l’angoscia e il dolore per l’assenza e permettersi di sorridere quando invece di un messaggio rivolto a lei Ed le invia per errore un messaggio rivolto al proprio figlio in età scolare.

Pian piano non è più un rapporto a senso unico fra bambina e adulto, fra chi ha arti quasi divinatorie e chi si bea di queste attenzioni speciali, fra chi invia messaggi e chi li ascolta, pian piano anche lei inizia a replicare ai messaggi di Ed, in quella che è quasi una psicoterapia sul modello psicoanalitico, poi entra anche lei in quelle corrispondenze di attenzioni ed eventi a cui Ed l’aveva abituata, anche lei riesce ad anticiparlo, a far coincidere i suoi moti del cuore con ciò che le accade.

Adesso, e soltanto adesso l’amore fra Ed E Amy è completo, è reciproco e relativamente libero dai loro fantasmi, adesso accadono le corrispondenze reciproche, non più a senso unico, dove il gesto dell’uno incontra l’emozione dell’altro, il pensiero dell’uno l’agire dell’altro, il palmo della mano destra dell’uno quello della sinistra dell’altro, la guancia destra quella sinistra, le labbra dell’uno arcuate verso destra quelle dell’altro arcuate verso sinistra.

Alla fine, straziata dagli ultimi messaggi di Ed su SD di pessima qualità perché si sono bagnate nel lago, in cui si confonde la pessima qualità delle riprese a causa del deterioramento col deterioramento delle condizioni di Ed a causa della malattia (un astrocitoma, un tumore al cervello dal nome evocativo per Ed che è astrofisico, egli lo commenta dicendo che a forza di guardare le stelle, una di esse è andata a conficcarvisi nella sua testa, dovuto ad un “astrocita immortalizzato”, un astrocita è una cellula del sistema nervoso centrale che costituisce la nevroglia, cioè quella rete di cellule che sono di supporto ai neuroni, li nutrono, li isolano da altri tessuti nervosi e tengono lontani i corpi estranei, immortalizzato perché per motivi sconosciuti subisce una modificazione nel DNA per cui non si estingue come tutte le sue consorelle, ma si replica di continuo), Amy comprende che il suo uomo, la sua stella, è morto e che lei ne vede solo la luce, e solo allora può distaccarsi e lasciarlo andare.

Ma Amy non è ancora pronta per un altro amore, adesso sta godendosi ancora queste corrispondenze e l’essersi ritrovata così com’è, senza calco di gesso che la imprigioni e senza fantasmi che la agitino … “Sei impegnata? Che dici, beviamo qualcosa insieme?”, “Non stasera, Jason – replica lei dopo un istante di silenzio”.

(Giuseppe Tornatore, La corrispondenza, Sellerio, 2016).




LA CORRISPONDENZA 1

$
0
0

Olga Kurylenko

Olga Kurylenko


La Nature est un temple où de vivants piliers

Laissent parfois sortir de confuses paroles:

L’homme y passe à travers des forêts de symboles

Qui l’observent avec des regards familiers.


Comme de longs échos qui de loin se confondent

Dans une ténébreuse et profonde unité

Vaste comme la nuit et comme la clarté,

Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.


Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,

Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,

- Et d’autres, corrompus, riches et triomphants,


Ayant l’expansion des choses infinies,

Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,

Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.


(Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, IV Correspondances, 1857).



Il cielo di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova

Giuseppe Tornatore



La Natura è un tempio dove incerte parole

mormorano pilastri che sono vivi,

una foresta di simboli che l'uomo

attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari.


Come echi che a lungo e da lontano

tendono a un'unità profonda e buia

grande come le tenebre o la luce

i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.


Profumi freschi come la pelle d'un bambino

vellutati come l'oboe e verdi come i prati,

altri d'una corrotta, trionfante ricchezza


che tende a propagarsi senza fine- così

l'ambra e il muschio, l'incenso e il benzoino

a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.



Olga Kurylenko e Jeremy Irons




"-Ogni giorno il sogno che una volta conoscerò qualcuno. Ah! Se solo sapeste quante volte mi sono innamorato in questo modo!

-Ma come, di chi?

-Di nessuno, di un ideale visto in sogno. In sogno creo dei romanzi interi."

(Fëdor Dostoevskij, Notti Bianche).







“La corrispondenza è soprattutto una storia d’amore …” dice Giuseppe Tornatore del suo ultimo film e mi colpisce quel “soprattutto”, perché vuol dire che chiunque volesse vedervi “solo” una storia d’amore non coglierebbe le infinite sfumature di questo film e, d’altra parte, l’amore è la chiave fondamentale per comprendere questa nuova storia che il grande regista italiano vuole narrarci.

Una storia d’amore alta, sublime, intensa, “stellare” (è il caso di dirlo), ma si tratta soprattutto di un amore per corrispondenza, di un amore che in gran parte si consuma “virtualmente”, attraverso bigliettini, mazzi di fiori, sms, telefonate, cd con messaggi videoregistrati, conversazioni su Skype … solo nella prima scena i due protagonisti si vedono insieme e si tratta di un saluto dopo un incontro fugace in un albergo, un saluto che a posteriori potremmo dire straziante, perché sarà l’ultimo che i due si scambieranno di persona e forse l’ultimo in cui entrambi sono ancora vivi.

Per il resto, si intuisce che questo amore a distanza, quando avverte l’esigenza di fisicità, faccia incontrare Amy ed Ed (così si chiamano i due innamorati), in qualche hotel o per periodi un po’ più lunghi e certo più intimi, nella casa di lui nel lago d’Orta, un piccolo gioiello di romanticismo, incastonato fra la Valstrona e la Valsesia, in Piemonte.

E non potrebbe essere diversamente per un amore che nasce fra due persone separate da più di trentanni di differenza di età e di cui uno, Ed, non è libero, è sposato e ha due figli, la maggiore è persino di tre anni più vecchia della sua giovane amante, mentre il figlio più piccolo è un ragazzino in età scolare.



Olga Kurylenko

Olga Kurylenko

Giuseppe Tirnatore


Ed è un docente universitario di astrofisica, di fama internazionale, mentre Amy è una studentessa fuori corso di Astronomia, si incontrano nelle aule universitarie ed è li che presumibilmente scocca la scintilla fra loro due; ma non si tratta semplicemente di una banale infatuazione dell’allieva per il maestro per quanto riguarda lei, o una altrettanto banale crisi di mezza età che porta il maschio in declino alla ricerca di carne giovane per dimostrarsi di essere ancora piacente e “potente”.

Qualunque sia il sentimento che lega queste due persone non è niente di banale, niente che possiamo liquidare con i miseri pregiudizi del moralismo, fin dalle prime parole, dai primi sguardi dalle prime ardenti carezze ti rendi conto che li lega una scintilla divina, che una folgorazione li accende e fa si che ardano l’uno per l’altro.

Edward Phoerum è una figura faustiana, uno studioso che ha trascorso tutta la sua vita ad osservare le stelle, le galassie, i buchi neri, tutto ciò che si trova a distanze immense da lui, trascurando quasi del tutto di far caso alle cose vicine; certo, questo non gli ha impedito di fare una splendida carriera universitaria, di divulgare le sue ricerche riscuotendo un certo successo e un certo rispetto nella comunità degli studiosi della sua disciplina e fra i suoi allievi, una persona estremamente soddisfatta dei suoi risultati scientifici, sicura di sé e del valore del suo lavoro, è riuscito anche a sposarsi, ad avere dei figli e ad essere anche un marito e un padre accettabile, anche se non sempre presente, ma non è mai stato felice.

Amy Ryan, questa giovane e bella ragazza di meno di trentanni è la sua felicità, tutti quelli che lo conoscono, i suoi amici ed anche la sua stessa figlia se ne rendono conto, gli occhi non gli si sono mai illuminati così, nemmeno quando guardava le stelle, ed Amy è certamente la sua stella più splendente, quella che splende soltanto per lui.



Jeremy Irons

Jeremy Irons e Olga Kurylenko

Giuseppe Tornatore


Lei, Amy, vede in lui un bell’uomo, ancora attraente e molto affascinante, uno che riesce a stimolare non solo il suo corpo ma anche la sua intelligenza, da pari a pari, senza farle sentire il peso dei suoi anni e della sua esperienza, uno che con orma lieve traccia orme profonde nell’animo di lei, ma soprattutto un uomo molto attento e innamorato, qualcuno che la fa sentire amata, qualcuno che è felice che lei esista e si ritiene fortunato per averla incontrata.

Se cominciate a pensare che si tratti soltanto di un amore virtuale, che La corrispondenza sia la ricostruzione di un amore eccezionale basato quasi esclusivamente su uno scambio di missive, anche se non odorano di carta pregiata e d’inchiostro, come accadeva un tempo, come era d’uso fra i grandi letterati dei due secoli appena trascorsi, dei loro amori nero su bianco, delle loro parole tenere e strazianti, scambiati con donne (o uomini) eccezionali, che hanno saputo rispondere tono su tono, siete fuori strada.

Questo film non parla soltanto di un amore epistolare, o della reciprocità di sentimenti testimoniata da alcuni supporti silicei digitali, come vogliono i nostri giorni, parla anche e soprattutto di una corrispondenza di anime, di una affinità elettiva fra due esseri umani, della scoperta che da qualche parte esiste qualcuno che è strettamente legato al nostro destino dalle stelle.

E sono, infatti, le stelle a farli incontrare, la comune passione per l’astronomia, in particolare per l’astrofisica a legarli, anche se questo avviene relativamente tardi nella vita di lui, e gli lascia solo poco tempo (quei pochi anni di vita che gli rimangono) per poter godere dell’evento più grande capitatogli in tutta la sua esistenza.



Olga Kurylenko

Olga Kurylenko



Pur nella loro particolarità e peculiarità, nessuno dei due è una persona straordinaria ed eccezionale se non per l’altro che lo guarda con gli occhi dell’amore; Ed è un professore brillante, intelligente, ancora piacente, benestante, ma non è un genio, e certamente Amy potrebbe trovare uomini più giovani e più belli di lui da amare, la ragazza poi sembra più quella della porta accanto, che indossa vestiti ordinari anche comodi senza curare molto l’eleganza e senza sottolineare troppo la bellezza del suo corpo.

Solo in un paio di occasioni, quando è accasciata nuda nella doccia o quando esce nuda da un calco artistico di gesso ti accorgi che ha un fisico straordinario, di una bellezza cruda che è quasi dolorosa a vedersi, non è la bellezza felina e sinuosa di una vamp, ma quella di un fisico dalle belle forme piegato dal dolore, e fa riflettere che le uniche occasioni in cui è nuda siano eventi spiacevoli.

Non si tratta dunque dell’amore fra persone straordinarie, un perdere la testa per un essere eccezionale, ma di un rapporto basato su corrispondenze puntuali di segrete e misteriose congiunture, di arcane affinità, di correnti di reciproca attrazione e simpatia, in molti casi ancora oscura a loro stessi, tutta da svelare, che può fare persino paura … non a caso il film si apre con la trattazione quasi divertita del mistero che sono l’uno per l’altro e dei numerosi “doppi” che ciascuno di loro possiederebbe.

Non è, per intenderci, il professore che perde la testa per la bella gnocca che lo fa sentire ancora maschio, anzi preferito ai maschi più giovani, o l’allieva che perde la testa per il professore pieno di fascino e di sapienza, nelle cui pieghe delle parole scorge verità ancestrali che vengono comunicate solo agli iniziati; si tratta piuttosto di quel colpo di fulmine che, se sei fortunato, ti capita una volta nella vita.



Olga Kurylenko

Olga Kurylenko


Non so perché entrambi decidano di accontentarsi di vivere frammenti di vita insieme, perché non risolvano di coabitare, di vedersi più spesso, forse lui non vuole alterare gli equilibri della sua vita, forse è lei che in un atto di amore estremo ritiene di non voler forzare su questo punto, che questa decisione spetti soltanto a lui e di volerselo godere per ciò che lui decide di concederle, e in ogni caso pensa che ciò che le concede sia per lei non sufficiente, che in amore non esiste la sufficienza, ma appagante.

Ai due non rimane che un rapporto virtuale in cui vedi sempre immagini dell’altro, filtrate da una webcam, accarezzi monitor invece di sfiorare dita, guance e mani e baci più volte la superficie del tuo cellulare invece che calde e succose labbra e dove già un biglietto, una cartolina, una lettera o un mazzo di rose diventano un feticcio, perché l’ha scritto di suo pugno, l’ha toccato.

C’è chi pensa che l’amore virtuale non sia amore, l’essere umano si contraddistingue specialmente perché vuole sindacare su tutto, vuole spaccare il capello in quattro su ogni questione, succede per la bazzecole, figuriamoci per l’argomento che “move il sole e l’altre stelle”.

Ecco che a tutti i livelli legioni di soloni sono pronti a dirti cosa è e cosa non è l’amore, trovi chi ti dice che farlo col preservativo non è amore, poi spunta anche quell’ex presidente che dice che il sesso orale non è amore, ma una specie di passatempo, quell’altro che ti dice che le esperienze fatte in adolescenza non sono amore, o quell’altro ancora che sostiene che il tradimento non sia amore, ma uno sfogo necessario che ha lo scopo di rafforzare il matrimonio, o pure chi ti suggerisce che il tradimento si può perdonare, perché il perdono è diventato tanto di moda.



Il cielo stellato sul Foro Romano

Lago D'Orta


Di recente a Milano stavamo discutendo di una signora che viene in analisi con alcuni miei colleghi, ad un certo punto la collega che presentava il caso ci dice che in una delle ultime sedute la sua paziente le ha detto di essersi innamorata di un uomo, solo che lui è sposato; periodicamente, continuava la mia collega, questa donna si innamora di uomini "sbagliati", c’è stato quello attaccato alle gonne di mammàalla tenera età di 50 anni, quello violento, quello che abitava distante, quello squilibrato, quello che la prendeva in giro, quello che si approfittava di lei e ora quello sposato.

Un caso da manuale di donna che si lancia in “amori impossibili”, si tratta di amori che non trovano realizzazione, amori che sono come quelle equazioni senza soluzione, che o non si proclamano per nulla, rimanendo allo stato larvale e nutrendosi di sospiri, o che quando si proclamano cadono nel vuoto.

Secondo Michele Minolli e Romina Coin:


“Gli amori impossibili testimoniano la sofferenza umana correlata con l’illusione e il fraintendimento dell’avvicinarsi quando l’altro si allontana e di allontanarsi quando l’altro si avvicina. Indicano la drammaticità del rapporto dell’Io-soggetto con i propri desideri, perché manifestano un’apparente «intenzionalità», ipotizzabile dall’esterno, la dove risulta nei fatti non esserci strada d’accesso o possibilità di realizzazione”.

(Amarsi, amando. Per una psicoanalisi della relazione di coppia, Borla, Roma, 2007, p. 155).


A quel punto quasi ciascuno di noi si è sentito in dovere di ricordare come similitudine qualcuno dei suoi pazienti, ma la trafila era sufficientemente ampia da far passare anche alcuni amici e conoscenti, e persino qualche episodio personale di cui però si fa fatica a condividere; è incredibile come esistano molte persone che con le faccende d’amore proprio non vogliono averci più niente a che fare o che quando ci hanno a che fare, lo fanno in maniera disastrosa per loro stessi e per gli altri.

Gli esempi vertevano soprattutto su casi di persone che si innamorano di gente già sposata, o che abita a distanze considerevoli (incontratasi di persona in vacanza o per motivi di lavoro o, ancora, virtualmente attraverso i social network che mettono in connessione persone che abitano in posti diversi), o con una considerevole differenza di età di estrazione sociale e culturale, o ostacolati dalla famiglia, dalla morale o dalle leggi di un luogo, o che non corrispondono ai tuoi sentimenti ma questo non scoraggia affatto l’innamorato che insiste sulla storia d’amore e interpreta in maniera delirante i rifiuti e l’indifferenza.

È, quest’ultima, l’antica diagnosi di erotomania, o di ninfomania per le donne e satiriasi per gli uomini, di cui hanno scritto pagine indimenticabili Jacques Ferrand in Maladie d'amour ou mélancolie érotique, Gaëtan Gatian de Clérambault in Les psychoses passionelles, Sigmund Freud in Alcuni meccanismi nevrotici della gelosia, paranoia e omosessualità e Jacques Lacan nella sua tesi di dottorato sul caso di Marguerite Pantain che egli cela sotto lo pseudonimo di Aimée.

[Continua]


SPARECCHIAVO

$
0
0





La battuta non è mia, ma di Carlo Zanna, la trovo semplicemente stupenda!!!

Prendo le distanze da alcuni insulti veramente volgari che sono giunti a Giorgia Meloni, credo comunque che sia molto volgare anche usare il proprio stato di gravidanza per propagandare il proprio odio (perché non mi verrete a dire che quelle della Meloni sono "idee" politiche) o per approfittare dell'occasione per aumentare il proprio potere e la propria visibilità.

GONGOLO

MA ICCHÈ LA MI DICE, SORA BEATRICE!

$
0
0




Aspetta, com’era? “Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica, e chi scava. Tu scavi”…. no, non era questa … “Quando un pistola incontra una pistola” … neanche, detta così sembra Gianluca Buonanno … “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto” … Ecco, e quando una donna col tacco dodici incontra un uomo col tacco due, l’uomo col tacco due è un uomo morto.





Conegliano, Valdobbiadene, Belluno, Longarone, Pieve di Cadore, Valle, Vodo, Borca, San Vito, Cortina d’Ampezzo, Pecol, Passo Falzarego, Caprile, Alleghe, Cencenighe, Agordo, Belluno, Vittorio Veneto, Conegliano, Casa.

Con un solo pernottamento al rifugio Lagazuoi a 2752 metri sul livello del mare, da dove affacciandoti dalla sua ampia terrazza puoi vedere il Pelmo, il Civetta, le Pale di San Martino, la Marmolada, il Catinaccio, il Gruppo Sella, le Tofane, il Sorapis, l’Antelao e, ancora più giù, ad ovest, i monti innevati dell’Austria, l’Ötztaler, il Cir-Odle-Puez, il Pan di Zucchero (Zucherhütl). Che ti mette a disposizione la sauna più alta delle Dolomiti, in pratica un cilindro in legno e metallo, adagiato sulla neve e pericolosamente vicino ad un crepaccio.

Ci sono due “ragazze” svedesi, in realtà sono madre e figlia, ma sembrano due sorelle, loro si che dopo la sauna di sera butterebbero volentieri gli asciugamani per aria e si rotolerebbero nude sulla neve, i tedeschi seguirebbero di slancio, un tedesco se non è vietato dalla legge si lancerebbe a fare qualsiasi cosa, poi c’è qualche italiano, due coppie giovani e una famigliola con un lui una lei e una figlia, classica “famiglia normale”, lui si è portato dietro l’osservatorio astronomico del monte Palomar in Arizona, perché quella che ha non può più chiamarsi macchina fotografica, solo all’interno del suo obiettivo potrebbe ospitare un barcone di migranti, … ebbene, loro sono la legge.










Mi riferisco alla legge che non ci si può rotolare nudi sulla neve dopo la sauna, almeno non se sei li con la tua famiglia o con la tua fidanzata, per il resto, mentre in genere i tedeschi sono molto ligi, e anche gli svedesi, entrando nel rifugio si tolgono senza alcuna sollecitazione gli scarponi da sci o da trekking per calzare quelle ciabatte in feltro tipiche della montagna, perché sanno bene che potrebbero strisciare il parquet in legno, noi italiani abbiamo bisogno del suggerimento, ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse, come se i nostri scarponi non potessero rigare il legno.

Ad un certo punto, prima che giungessi a Cortina mi viene voglia di un caffè, attraversando un paesello, una di quelle frazioni con poche case da una parte e l’altra della strada principale, con meno di cento abitanti compresi cani, gatti e galline, vedo un bar aperto e un posto macchina libero.

Mi fermo, scendo, chiedo della toilette, ritorno al banco e ordino un caffè, la barista/proprietaria sembra una donna piacente, non è assemblata male, ma è fin troppo truccata per i miei gusti e anche nell’abbigliamento mi sembra molto carica, jeans a vita bassa, molto aderenti, maglia di lana nera anch’essa aderente, con una giacchina anch’essa nera perché fa freddo, cinturone che più che ad una barista dolomitica la fa assomigliare a Tex Willer in Tex contro Mefisto, gli stivali neri alti fin quasi al ginocchio e i capelli neri legati dietro a coda di cavallo non fanno che confermarmi questa impressione.










Poi è una che parte direttamente con il tu, anche se non ci conosciamo affatto, e questo non mi piace molto, perché sminuisce a mio parere quel senso di conoscenza e di intimità che ci si deve conquistare, non basta azzerare ogni differenze e ogni senso di estraneità usando la seconda persona singolare dei pronomi per sentirsi meno a disagio.

Mi guarda e mi sorride con una certa simpatia, non devono passare tanti “stranieri” da quelle parti, o meglio, per passare passano, visto che è la strada che porta a Cortina, ma non molti devono fermarsi, anche perché la “perla delle Dolomiti” sarà ormai a meno di mezzora di strada, il locale è frequentato solo dallo zio Cola (non so come si chiamasse, ma somigliava in maniera impressionante allo zio Cola che conosco io, che da quando tira di coca lo chiamano Coca Cola), che se ne sta un po’ in disparte, assorto a leggere chissà quali presagi nella sua ombra de vin.

Poi c’era Giovanni, neanche questo so come si chiama davvero e non mi assomiglia a nessuno che conosco, ma un nome devo pur darglielo, con le stampelle colorate di un giallo evidenziatore appoggiate su un tavolino, che gioca nell’altra stanza con quelle infernali macchinette mangiasoldi dondolandosi come se quel dondolio dovesse contribuire a farlo vincere, che si sta giocando con un certo impegno e solerzia tutto il sussidio per l’incidente sul lavoro (almeno questo ho immaginato).











Mi cade la bustina dello zucchero per terra, la raccolgo, lei mi fa un altro sorriso e mi chiede: “Com’è?” e devo rifletterci un istante per capire che si riferisce al caffè che sto bevendo … è letteralmente schifoso … “bror e purp” avrebbe sentenziato un napoletano, ma preferisco mentire spudoratamente rispondendole: “Gradevole”, pur senza enfasi per non esagerare.

Quando sto per pagare mi cade il berretto per terra … “C’è qualcuno che ti pensa!”, mi dice lei … “Prego?”., replico … “Si, qualcuno ti sta pensando, prima la bustina, poi il berretto, qualcuno il cui nome inizia per B” … (“Ce stai a provà?” penso io).

In procinto di uscire e quasi sulla porta, come se fosse una curiosità senza importanza chiedo: “Mi scusi, lei come si chiama?”, “Beatrice!”.













STAT ROSA PRISTINA NOMINE, NOMINA NUDA TENEMUS

$
0
0




Trentacinque anni fa, appena adolescente, nell’unica vera libreria del paese in cui sono nato (le altre vendevano quasi esclusivamente libri scolastici e qualche best seller o qualcuno di quei libri di persone conosciute, di quelli che le case editrici ti “consigliavano” caldamente di tenere, così come la mafia ti consigliava di pagare il pizzo), un buco di pochi metri quadrati dove i libri sono esposti più in verticale che in orizzontale, e dovevi salire scale e cercare sopra, sotto, dietro, per scorgere ciò che poteva interessarti, e ciò che non trovavi potevi chiedere al libraio, un tizio col barbone che di nome faceva Francesco (Ciccio) Urso, che sicuramente te lo avrebbe rintracciato, incontravo Umberto Eco.

Non lui di persona, cosa sarebbe venuto a fare un autore già molto noto in uno sperduto paese della Sicilia sud orientale, quando persino Cristo si era fermato a Eboli; si trattava di un suo libro, edito da Bompiani: Opera Aperta, me lo rigiravo fra le mani senza decidermi, quando il suddetto libraio senza essere interpellato mi guardò aggiungendo: “Ottima scelta!”.

Cosa ci faceva un quindicenne, con i capelli tagliati a caschetto, come usavano allora, dedito più all’attenzione delle ragazze sue coetanee, con un libro il cui sottotitolo recava la scritta: “Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee” era un mistero, quando persino i suoi insegnanti e gli eruditi di quel paese non avrebbero mai preso in considerazione un libro simile e se, costretti a leggerlo, difficilmente l’avrebbero capito.

Ma il quindicenne lo acquistò insieme, ovviamente, alla rivista preferita che leggeva A Rivista Anarchica; si, perché il quindicenne non era certo un tipo qualunque, aveva un magma incandescente di idee, sentimenti e sensazioni che gli bollivano dentro, aveva fame di cose nuove, ma cose che davvero potessero nutrirlo, cose vere, autentiche, perché tutto ciò che lo circondava gli sembrava irrimediabilmente falso e banale. 


Era un tipo che non scriveva “Bimba ti amo” sui muri, ma si inventava cose come: “Il più bel fiore non muore mai” oppure :” Vivi la vita come una battaglia e la morte come un’avventura”.

Cosa poteva insegnare un pacato professore piemontese, vagamente di sinistra, che giocava con la sua indubbiamente notevole intelligenza, che inventava un modo nuovo di fare intelligenza, ad un ragazzo siciliano incandescente come la lava dell’Etna, che era alla ricerca affannosa di sorsate di acqua pura e di aria fina per sfuggire a quella sensazione di soffocamento, grettezza, di limitatezza, di sconforto e di schifo che lo circondava?

Poco o niente. Quelle parole era come non lo riguardassero, così come non riguardavano il mondo che stava vivendo, erano troppo razionali, troppo intellettuali, troppo centrate sull’intelligenza, troppo astratte, per significare qualcosa per un ragazzo che stava assistendo all’invasione della mafia (quella dei corleonesi, quella degli omicidi, quella delle intimidazioni e delle bombe, quella che si nutre delle vostre aspirazioni, dei vostri sogni, del vostro scopo di vita, del motivo stesso per cui vi alzate la mattina e fate delle cose, quella che vi spegne il futuro e che vi lascia solo due opportunità: o vi piegate, a 90° gradi, o vi spegnete).

Lessi quel libro, lo divorai in fretta, ma lo accantonai senza farci niente, non una citazione, non un cenno di averlo letto, non molte riflessioni sopra … solo l’impressione molto vaga di aver letto qualcosa di grande che al momento non riuscivo a comprendere.




Solo qualche anno dopo, era già il 1986, il libro era uscito da qualche anno, riincontrai di nuovo Umberto Eco in una libreria di Padova, un altro libro, stavolta un romanzo, dal titolo oscuro e accattivante Il nome della rosa, ne fui conquistato, lo presi e iniziai a leggerlo senza riuscire ad interrompere la lettura e, finito di leggerlo, riiniziai da capo, e quando lo lessi più volte cominciai a cercare informazioni sui cavalieri templari, su Fra Dolcino, sui movimenti ereticali medioevali, sull’inquisizione, sui francescani, sulla storia di quello scorcio di tempo e, appena mi fu possibile, andai una settimana a soggiornare da solo in una famosa abbazia del nord Italia, seppure non sono mai stato credente.

Dire che il libro mi piacque è poco, è nulla, non ho mai avuto ambizioni letterarie, ma quel libro avrei voluto scriverlo io, davvero, talmente lo sentivo mio; qualsiasi frase non avrei saputo scriverla meglio, qualsiasi termine mi sembrava il più indicato, l’argomento lo sentivo come se fosse qualcosa che in quel momento agitava anche me, mi sembrava l’espressione di un assoluto, di qualcosa di universale, di quelle opere che rimangono scritte nella letteratura universale a lettere di fuoco e parlano ai contemporanei, così come parleranno alle generazioni a venire.

Non mi è mai successo un simile trasporto per un libro, né per altri capolavori universali della letteratura di tutti i tempi, che pure ho apprezzato, e molto, né per altre opere dello stesso Eco, scritte prima o dopo.






In seguito mi sono rifatto del tempo perduto, ho rastrellato tutto ciò che aveva scritto in precedenza, ho intercettato tutto ciò che ha scritto in seguito, tutti i suoi saggi, il Trattato di semiologia che mi ha aiutato moltissimo a ripensare la semeiotica della psicopatologia, insieme ai trattati di psichiatria, gli altri romanzi che sono seguiti, la Bustina di Minerva su L’Espresso, alcune interviste rilasciate a questo o quel giornale, le sue lezioni al DAMS di Bologna che ho frequentato irregolarmente, quando potevo.

Mi dispiace che Eco sia nato in Italia, paese che non l’ha apprezzato quanto avrebbe dovuto, eravamo troppo impegnati a schierarci da una parte o dall’altra, a destra o a sinistra, per i riformisti o per i moderati, per Berlusconi o per Prodi, per Renzi o per Salvini … per cui Eco o stava dalla nostra parte, senza capirlo, o era dall’altra, senza capirlo … una tristezza!

I miei colleghi sudamericani, argentini, cileni, messicani, colombiani e brasiliani lo adorano … letteralmente, i miei colleghi italiani quasi non sanno chi è, e a parte alcuni dei suoi romanzi di successo, non hanno mai letto nient’altro di ciò che ha scritto … una pena!

Ci vorrebbe un altro Umberto Eco per scrivere un necrologio di Umberto Eco degno di lui… e mi dispiace davvero molto di non essere io a saperlo scrivere!  




SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS

$
0
0



"Ma io non voglio andare fra i matti" osservò Alice. "Bè, non hai altra scelta" disse il Gatto "Qui siamo tutti matti. Io sono matto. tu sei matta". "Come lo sai che sono matta?" disse Alice. "Per forza" disse il Gatto: "altrimenti non saresti venuta qui".
(Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie).   




Inizio dal commento di Mario Adinolfi perché da qualche parte bisogna pure iniziare, c’è chi sostiene che chi si avventura nella melma prima o poi si impantana, correrò questo rischio e ritengo tuttavia possibile strutturare un discorso decente pur partendo da materie vili.

Mi riterrò fortunato se alla fine di questa lettura non vi avrò annoiato troppo, sarò felice se vi avrò trasmesso qualche buona idea su cui riflettere, ma il mio vero intento è quello di iniziare una discussione in base al quale anch’io alla fine possa avere qualche buona idea vostra su cui riflettere e se considererò tutto questo scritto come qualcosa di ingenuo, una buona scala che mi ha permesso, grazie al vostro aiuto, di andare oltre.  

Anche ad una lettura superficiale è chiaro fin da subito l’intento di Adinolfi in questo commento, a lui dell’atroce delitto di un giovane; dell’esplosione del fallimento esistenziale della vita di altri due giovani e della sofferenza dei familiari della vittima, della sua ragazza e delle famiglie dei carnefici, che si guardano attoniti e inorriditi alla possibilità di aver allevato e nutrito due mostri con sembianze umane, non gliene frega niente.

Non spende nemmeno una parola di umana pietas, il cristianesimo che dice di professare non l’ha sensibilizzato neanche un po’ a provare compassione e amore per il prossimo, per il più debole; ad Adinolfi interessa accusare prima di tutto Repubblica, rea, a suo avviso, di celare la grande verità che sanno tutti, e cioè l’uso di quella parola chiave, “gay”, che secondo lui dovrebbe chiarire tutto.

Celare perché Repubblica è succube della potente lobby LGBT, la quale pretende che siano occultati quei particolari per lei fastidiosi.

E Adinolfi non ci fa attendere per svelare quali siano questi particolari, lui bontà sua non è succube della potente lobby, anzi la combatte a viso aperto come un cavaliere del Sacro Soglio, come una Sentinella in Piedi; anzi, più che svelarci vi accenna, vi annuisce, vi allude, ci suggerisce, perché confida nella nostra intelligenza e perché sa che ha più effetto retorico, è più efficace e persuasiva un’idea che crediamo di aver avuto noi, che un’idea di esplicita provenienza altrui.

L’idea è di una semplicità e di una banalità disarmanti, ed è proprio questo il suo punto di forza maggiore, i pubblicitari sanno perfettamente che bisogna trasmettere concetti estremamente semplici legati ad emozioni altrettanto elementari se vuoi essere incisivo, non devi rivolgerti all’individuo adulto e razionale, devi rivolgerti piuttosto all’individuo infantile, immaturo e irrazionale che c’è in ciascuno di noi.

Umberto Eco mi ha fatto comprendere (e spero non soltanto a me), quali sono i criteri che un concetto deve ottemperare perché si insedi ossessivamente nella mente delle persone in modo tale da stravolgere il suo giudizio e da essere estremamente difficile da sloggiare, anche dopo averla controbattutta con tutta una serie di argomenti razionali e pieni di buon senso … d’altronde pensare è faticoso, e la nostra mente segue soprattutto il principio del minimo sforzo, in questo caso un’idea preconfezionata, ottenuta senza alcuna fatica, che però riteniamo nostra, diventa irresistibile.

I principi di economia del pensiero di Eco sono essenzialmente tre: i concetti si collegano fra di loro per analogia; creano processi circolari lungo una serie di analogie, ciò dimostra che il gioco è valido; le connessioni non devono essere inedite ed appaiono vere perché sono ovvie.






Se volete è lo stesso schema secondo cui si insedia e si diffonde un pettegolezzo: “Sai ho visto la Tale ieri l’altro in via Garibaldi”, “In via Garibaldi ci abita il Tale”  … e qui avete l’esempio di una coincidenza e di una analogia che sta iniziando a diventare sospetto più che lecito iniziando a creare quel rapporto circolare di cui parla Eco, secondo cui la Tale passava in via Garibaldi perché ci abita il Tale e il fatto che quest’ultimo abiti in via Garibaldi, spiega la presenza in quella via della Tale.

Ma fin qui siamo di fronte soltanto a due tautologie che dovrebbero sostenersi a vicenda, a dare la certezza assoluta al sospetto precedente è che questa connessione effettuata fra la presenza di lei in quella via e il fatto che in quella via ci abiti lui, è che la connessione fra questi due eventi non deve essere inedita, basta soltanto che un’altra comare abbia pensato la stessa cosa, che il gioco è fatto.

È il meccanismo propulsore della credenza nei miracoli, è il principale motore propulsivo della fabbrica dei miti, dei santi e dell’affermazione delle religioni, quella che ha il più elevato potenziale mitopoietico si afferma, le altre soccombono … ecco perché il culto di Mitra, che era molto simile al Cristianesimo, decade e quest’ultimo ne esce vincitore.

E non importa mai la qualità, la stoffa, la serietà, la credibilità di chi inizia a diffondere la connessione, le origini del mito, delle sacre scritture, delle dicerie e delle chiacchiere si perdono sempre nell’indeterminato, quando si divulga un pettegolezzo ci si ricorda sempre e solo di chi te lo riporta e del luogo in cui ha avuto origine, mai chi l’ha detto per primo, è così per l’Iliade e l’Odissea, è così per le Sacre Scritture è così quando qualcuno ti avvisa che nel tuo ambiente di lavoro stanno tramando per farti fuori.




L’idea geniale di Adinolfi è che la semplice parola “gay” spiega all’improvviso due fra i più recenti efferati delitti, quello di Luca Varani e quello di Gloria Resboch, infatti, secondo lui, “gay impazziti” sono sia la coppia Manuel Foffo e Marco Prato, sia Gabriele Defilippi e Roberto Obert, appartenenti senza dubbio alla “galassia” Lgbt.

Ma perché Adinolfi ci tiene tanto ad introdurre il termine “gay” in questi delitti, non è sufficiente definirli crimini efferati? Non è sufficiente, come per tutti gli altri crimini, cercare di capire come e perché sono avvenuti? Che importanza può avere se Prato, Foffo, Defilippi e Obert fossero o non fossero gay o etero, terroni o polentoni, cattolici o musulmani, nazisti o ebrei, patrizi o plebei, orazi o curiazi, burini o romani, scapoli o ammogliati?

Nessuna se vogliamo comprendere davvero il crimine, anzi far intervenire categorie estranee al delitto per spiegare un delitto rischia di fuorviarci, di farci trovare una verità di comodo proprio per non addentrarci in una verità che può essere scomoda, può essere orrenda, oppure (nella peggiore delle ipotesi) potrebbe esserci indifferente, nel senso: “Ma si, ma chi ‘o conosceva a questo, stupido lui a fidasse di quei due … o stupida lei a fidasse de Defilippo … quello che fa er programma Omini e Donne e Amici … tsé, “amici” semo tutti amici finché nun cerchi de fregamme!”.

Adinolfi vuole condurci a credere che invece proprio la parola “gay” spiegherebbe tutto, come se ci dicesse che queste cose così crude ed efferate possono accadere solo fra gli omosessuali, solo persone con gusti sessuali “strani”, degli “anormali”, degli “invertiti”, dei “degenerati”, dei “pederasti” (sto usando alcuni dei termini con cui la scienza del passato ha definito gli omosessuali) potevano commettere cose di questo genere.

È nella galassia omosessuale che delitti così orrendi possono accadere (Avete notato il termine “galassia” usato da Adinolfi? Sembra quasi che voglia mettere quanta più distanza possibile fra sé e l’omosessualità, come se avesse qualcosa da temere, allo stesso modo in cui in passato venivano definiti “uranisti”. Urano è il settimo pianeta per distanza dal sole, seguito solo da Nettuno e Plutone. E come lo stesso Adinolfi mette distanza fra sé e gli altri stratificandosi di rotoli di ciccia, esattamente come le macchine dell’autoscontro sono protette da una scocca in gomma che attutisce gli urti. Adinolfi è la personificazione vivente, il verbo fatto carne, dell'espressione romanesca "m'arimbarzi!").  






In fondo Adinolfi segue la logica delle nostre paure più elementari, quando in una comunità avviene un fatto strano, un delitto atroce o una serie di sciagure, il primo naturale tentativo che prende corpo è quello di attribuire le cause della disgrazia a qualcosa di esterno, qualcosa di estraneo ma che è pur sempre presente nel nostro ambiente, seppure marginale, perché chiunque sia la causa avrebbe dovuto per forza trovarsi nel luogo del delitto e perché così è facile da punire o da espellere.

Quasi mai chi commette un delitto efferato in cui ci si accanisce ossessivamente sul corpo con ferocia è un estraneo, quasi mai i delitti senza movente apparente sono commessi da sconosciuti, a partire dal primo delitto in assoluto, quello di Caino su Abele, delitti di questo tipo sono commessi da consanguinei, da persone che ti sono vicine, perché solo chi prova dei sentimenti molto forti per qualcuno può mutare questi sentimenti qualora veda in pericolo il legame, in un estremo tentativo di dominio, di controllo, di punizione efferata o di sospendere la volontà di abbandono, inaccettabile, nella morte che non ha più volontà.

Sul perché del capro espiatorio a portata di mano il rimando ad Eco è doveroso, in particolare al dialogo fra Adso e Salvatore ne Il nome della rosa:

«”Perché gli ebrei?” chiesi a Salvatore. E mi rispose: “E perché no?”. E mi spiegò che per tutta la vita avevano appreso dai predicatori che gli ebrei erano i nemici della cristianità e accumulavano quei beni che a essi erano negati. Gli chiesi se non era però vero che i beni venivano accumulati dai signori e dai vescovi, attraverso le decime, e che quindi i pastorelli non combattevano i loro veri nemici. Mi rispose che, quando i veri nemici sono troppo forti, bisogna pur scegliere dei nemici più deboli. Riflettei che per questo i semplici son detti tali. Solo i potenti sanno sempre con grande chiarezza chi siano i loro nemici veri. I signori non volevano che i pastorelli mettessero a repentaglio i loro beni e fu una grande fortuna per loro che i capi dei pastorelli insinuassero l’idea che molte delle ricchezze stavano presso gli ebrei».

(Terzo Giorno, Sesta, p. 195).  






L’omosessuale, l’ebreo, il musulmano, lo zingaro, l’eretico, l’anziano, la donna, …, ci fanno paura non soltanto perché diversi da noi, e il diverso provoca diffidenza, ma perché in essi proiettiamo parti di noi che non vogliamo riconoscere come nostre, e combattendole all’esterno pensiamo di poterle dominare senza viverle, senza prenderne contatto, senza mai riconoscerle come nostre, come se eseguissimo un controllo a distanza.

La nostra è una cultura del conformismo, per sentirci tranquilli dobbiamo sforzarci di essere simili l’un l’altro e pretendiamo che l'altro sia simile a noi, anche a costo di costringerlo, pena il dileggio, l'espulsione o l'eliminazione.
In una cultura siffatta in cui l’identità collettiva riposa sull’unicità e sulla uniformità, tutto ciò che è diverso si situa di fatto ai limiti estremi della comunità stessa, appena tollerato, anzi schernito, dileggiato, disprezzato e pronto ad essere usato come capro espiatorio nei momenti di crisi.

Potremmo fare un parallelismo puntuale su come si costruisce l’identità individuale e come si è formata storicamente e culturalmente l’identità collettiva; l’adolescenza nella nostra società è l’età in cui si è più sensibili al fenomeno dell’uniformità e a combattere ogni diversità, l’adolescente contrasta in maniera feroce tutto ciò che esula dall’immagine di uomo che crede di dover essere, non esita ad accanirsi contro tutti gli altri adolescenti che vede diversi da lui (più alti, più bassi, con problemi di handicap, affetti da alopecia, da albinismo, con la pelle diversa dalla sua, provenienti da popoli e culture diverse), perché questo lo fa sentire tranquillo, dalla parte del giusto.

La nostra società vive attualmente un periodo evolutivo di eterna adolescenza, siamo bambini per poco, adolescenti per sempre, e poi subito vecchi, come scrive Gustavo Zagrebelskynel suo Senza adulti, Einaudi, Torino, 2016, € 12, ecco perché le dinamiche inclusive ed esclusive dell’adolescenza sono regole usuali anche fra gli adulti.




La realtà di un delitto, di un fatto di sangue, è sempre molto più complessa, e termini “chiave” come “gay” non risolvono niente, anzi sono comode sporgenze a cui aggrappare la nostra stanchezza della carne, le nostre derive elitarie, le nostre paure risvegliate che hanno bisogno di una sciarpa di Linus (a proposito, in psicoanalisi gli oggetti e i giocattoli che teniamo cari, a metà fra l’interno e l’esterno, fra il me e l’altro, che ci proteggono, che ci rassicurano, sono detti oggetti transizionali se riferiti ad un bambino, feticci se riferiti ad un adulto).

La realtà dei delitti Varani e Resboch è ancora tutta la fuori, tutta da capire, altro che gay, galassie omosessuali, lobby Lgbt, alabarde spaziali, lame rotanti, missili e magli perforanti, raggio antigravità, disintegratori paralleli, il tuono spaziale, il doppio boomerang, e “punio papale”.

L’ipotesi di Adinolfi si tiene su per forza, attaccata alla saliva, perché nel caso del duo Prato e Foffo io non riesco nemmeno a vederla questa presunta omosessualità, Foffo organizzava eventi per la galassia omosessuale? Io ho avuto a che fare nel corso della mia vita con delinquenti, derogati, alcolisti, giocatori d’azzardo, mafiosi, assassini, serial killer,…, ma questo non fa di me nessuna di queste cose.

Lo stesso Foffo dice che lui era “etero” mentre Prato era gay, ed è stata ritrovata una lettera in cui quest’ultimo scriveva di voler diventare una donna, però poi scopri che i due avevano avuto una breve relazione fra di loro (e questo non impedisce a Foffo di continuare a dirsi etero e di definire gay solo il suo amico), scopri che Prato aveva avuto un’altra breve relazione con Flavia Vento (non mi è sfuggito che quest’ultima abbia approfittato di questo evento per pubblicizzarsi un po’, ma qualcosa dev’esserci stato fra i due), e poi non è che gli omosessuali vogliono diventare donne.





Riportare questi due commenti di Flavia Perina non vuol dire essere d'accordo con lei, fanno parte soltanto del contorno che accompagna l'argomento di cui sto parlando, anch'essi sono esplicativi di ciò di cui parlo.



Tutti concordano nel definirli due bravi ragazzi, tutti sembrano cadere dalle nuvole, poi scopri l’uso decennale di cocaina, la frequentazione di feste equivoche che più che festini gay mi sono sembrati più simili alle orge romane, dove c’era di tutto, sesso omo ed etero, uso di svariate sostanze, rapporti liberi e rapporti mercenari, vecchie conoscenze e perfetti sconosciuti, persone di varie età, tutte brave persone, tutti bravi ragazzi, perfettamente integrati, gente educata, che ti saluta, .ti dice buongiorno e buonasera, ti tiene aperta la porta dell’ascensore se stai per arrivare, non tiene alto il volume della musica e se decide di dare un festino e di uccidere qualcuno, educatamente gli fa fare una doccia prime e gli recide le corde vocali così non disturba i vicini.

No, questi non sono gay, queste sono persone dall’identità confusa, quelli che in clinica psichiatrica vengono definiti borderline, e se la loro identità è confusa, figuriamoci la loro sessualità, sono persone che possono essere etero con Flavia Vento e gay con un maschio, che possono esasperare il loro machismo o voler diventare donna, che si sballano per non avvertire il vuoto del loro essere nulla, che potrebbero farsi del male o farsi umiliare o picchiere dagli altri solo per sentirsi vivi e ancora per sentirsi vivi potrebbero progettare (stiamo parlando di casi isolati, perché la diagnosi di borderline è oggi molto diffusa e non tutti, fortunatamente, sono così pericolosi o aggressivi, non  tutti mettono in atto ciò che talvolta minacciano) omicidi o suicidi efferati e spettacolari, non tutti vi accolgono in casa loro nascondendo martelli e coltelli sotto i cuscini del loro divano.

Se l’ipotesi che il povero Luca Varani sia stato adescato con la promessa di alcuni euro o di cocaina gratuita offerta munificamente dal padrone di casa (che aveva acquistato parecchie centinaia di euro di roba) in cambio di un rapporto sessuale, fosse provata, lo stabilire che avvenissero rapporti sessuali mercenari normalmente in questo ambiente, non ci porta automaticamente a puntare il dito sulla comunità gay tutta.

Un gay può avere rapporti mercenari così come un etero va a puttane (o con i trans, anzi sembra che i trans siano più gettonati e più cari delle signorine di facili costumi che frequentano i nostri viali), ma la stragrande maggioranza dei gay ha rapporti affettivi e sessuali consenzienti e stabili con altre persone, non esiste una maggiore tendenza ai rapporti mordi e fuggi, che sono più indici di superficialità in individui sia gay sia etero.




Credo, infine, che tutta l’aggressività che questi delitti hanno elicitato, diretta a seconda delle proprie paure personali o collettive, o a seconda delle convenienze, vero la comunità gay, verso il padre di Foffo che dopo solo 48 ore dal delitto, si è presentato a Porta a Porta (qualcuno gli ha augurato di ammazzarsi), contro Bruno Vespa che intervista il padre di un criminale, sia perfettamente speculare all’aggressività senza senso che si è sprigionata durante questi due delitti.


È la stessa aggressività, nasce dalla stessa radice, dallo stesso vuoto e conduce allo stesso naufragio esistenziale di vite vissute senza darsi un senso alcuno, senza prendere fra le proprie mani saldamente le briglie della propria esistenza, lasciandosi cullare dall’essere studente fuori corso a vita, sballato perennemente, eternamente bravo ragazzo, con una normalità ipermimetica, ma che può trasformarsi in un killer efferato se solo se ne offre l’occasione, o la brava persona che non farebbe del male a nessuno e che “giustamente” (dal suo punto di vista) si scatena con tutta la ferocia di cui è capace (una ferocia di cui non ha consapevolezza) contro chiunque arriva a disprezzare per ignoranza, par paura o per comodo.





Una delle poche canzoni di Max Gazzé che non ci vuole una laurea in filosofia per capirla :-)

SENZA MEMORIA E SENZA DESIDERIO 3

$
0
0


Mark Shaw


Robert Doisneau


Paul Outerbridge

(Taninè - Don Pirrotta) - "Da quand'è che non ti confessi, Taninè?". "Da quando mi maritai, don Pirrotta". "Accussì tanto? E perché?". "Mah! Per la verità, non lo saccio. Si vede che il matrimonio che feci mi sviò". "Che razza di ragionamento! Il matrimonio sacramento è! Come può un sacramento sviare dagli altri sacramenti?". "Ragione ha. Allora forse è pirchì mio marito non ci tiene". "Tuo marito ti dice di non venire in Chiesa?". "Nonsi, non mi dice né ai né bai. Però una volta che stavo niscendo di casa per venire in chiesa, lui si mise a ridere e mi fece: "vieni qua che ti do i sacramenti che ti servono". E mi portò nella càmmara da letto. Accussì mi passò il pinsèro". "Bestemmiatore! Blasfemo! Tuo marito se ne andrà ad abbrusciare nel foco dell'inferno con tutti li vistita! Hanno ragione in paese di dire di tuo marito Pippo quello che dicono!". "E che dicono di Pippo in paìsi, patre Pirrotta?". "Dicono che è appattato coi socialisti! Coi peggio senza Dio!". "Parrì, non ci credesse alle malelingue!". "D'accordo. Però se tu mi conti le cose che mi stai contando!...". "Sgherzava, patre Pirrotta". "Assolvete il dovere coniugale?". "Mah... non saccio... che viene a dire?". "Fate quello che fanno marito e mogliere?". "Non ammanca". "Lo fate spesso?". "Tre... quattro volte". "A settimana?". "Babbìa? Al jorno, parrì". "Assatanato, pigliato dal diavolo è. Povira Taninè!". "Pirchì povira? A mia mi piace". "Che dicisti?!". "Che mi piace". "Taninè, ci vogliamo giocare l'anima? Non ti deve piacere!". "Ma se mi piace che ci posso fare?". "Devi fare in modo che non ti piace! Provare piacìri non è cosa di fìmmina onesta! Tu devi praticare con tuo marito solo con l'intenzione di fare figli. Ne avete picciliddri?". "Nonsi, non vengono, ma li vogliamo avere". "Senti, Taninè. Quando fai la cosa con tuo marito, arripeti mentalmente: ‘non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio’. D'accordo? La fìmmina, la sposa, non deve provare piacìri perché altrimenti il rapporto col marito cangia di colpo e addiventa piccato mortale. La donna non deve godere, deve procreare". "Patre Pirrotta, io quella cosa che disse non la posso dire". "E pirchì, santa fìmmina?". "Pirchì sarebbe una farfantarìa, una buscìa che direi al Signiruzzo santo. Macari quando Pippo mi si mette di darrè...". "Eh no! Questo è peccato! La Chiesa considera piccato farlo con l'omo ante retro stando, sebbene che i figli possono nascere lo stesso". "Parrì, ma che viene a contare? Ma quando mai! Indove che lo mette lui non nascono figli!". "O madre santa! Mi stai dicendo che lo fa nell'altro vaso?". "Ca quali vaso e vaso, parrì!". "Socialista è, quant'è vero Dio!". "Parrì, ma che ci accucchia il socialismo col vaso, come dice vossia?". "Ci accucchia! E come se ci accucchia! Farlo nell'altro vaso è contro natura! E contro natura è macari il socialismo!".

(Andrea Camilleri, La concessione del telefono, Sellerio, Palermo, p. 118-120, € 10).




Venere Callipigia Museo Archeologico Nazionale di Napoli


Ailes du Desir

Pour l'amour de Paris Brassai

Ma Man Ray non si concede solo quella forma di divertissementche è il violon d’Ingres, fa molto di più e di molto più irriverente (o come si direbbe oggi, di trasgressivo), scatta una foto di una donna inginocchiata su un letto e piegata su se stessa, da dietro, in primo piano si vede nitidamente il suo culo poggiato sui suoi piedi, e le mani giunte intrecciate dietro, la pubblica con il titolo “La priere” (La preghiera).

Un’immagine sconcertante, dissacrante, provocante, se fosse accaduto oggi invece che nel 1930, in Italia invece che in Francia, il cardinal Bagnasco l’avrebbe messo al rogo a Roma in Campo dei Fiori, sulla stessa pira di Giordano Bruno, papa Francescogli avrebbe sferrato un “punio” perché non si scherza impunemente con la mamma e i vari Mario Adinolfi, Massimo Gandolfini, Carlo Giovanardi e Roberto Formigoni gli avrebbero organizzato contro il Prayer Day.




Brassai Autoritratto (l'occhio notturno)

Coco Chanel

Coco Chanel


Stavolta usando come location direttamente l’attico di Bertone, perché il Circo Massimo è troppo piccolo per contenere tutti i fanatici d’Italia e tutti i laici “devoti” che leccano il culo alla Chiesa, perché i politici vari passano … tutti indistintamente (in Italia poi anche i più longevi durano non più di un ventennio), e ora contano e fra un po’ non contano più un cazzo, mentre la chiesa è li da oltre duemila anni e ha un potere a cui si inchinano sia il potere politico sia il potere economico oggi in questo Paese.
Altrimenti non si spiegherebbe il fatto che Bagnasco si senta in dovere di dire che la questione del matrimonio civile non è una priorità … o che sulle unioni civili si voti a scrutinio segreto … mi sono mai intromesso io su come va fatto un Conclave? Ho mai espresso il parere di usare marjuana della migliore sia per la fumata bianca, sia per la fumata nera, invece delle schede? … È lui a decidere cosa è e cosa non è priorità oggi … e manda segnali ai suoi tirapiedi e questi prendono le distanze dalla legge Cirinnà e gli organizzano il Family Day



Dior glamour autumn-winter 1953, haute couture collection vivante line, photo Mark Shaw

Dior glamour the Lola dress, photo Mark Shaw 

Pasquale De Antonis - La donna elegante, 1947


Comunque la vogliate interpretare questa immagine, qualunque sia il valore simbolico che vogliate attribuirle, sia che, come me, vogliate solo farvici sopra una sana e vigorosa risata, dovete però ammettere che gran parte del suo potere dirompente le proviene proprio da quell’oggetto impressionato, se avesse scattato una foto con la mani giunte sul seno, non sarebbe stata la stessa cosa.

Il culo attrae per la perfezione delle sue forme, d’altronde lo sapevano anche gli antichi greci che la forma geometrica più perfetta è la sfera, e i primi filosofi si occuparono tutti indistintamente di geometria, ma il culo è più perfetto della sfera perché è una sfera doppia che si presenta in modo simmetrico e poi, perché mentre la sfera è una categoria metafisica, il culo è estremamente fisico, è la parte del corpo umano più estesa e rappresenta al massimo grado la perfezione tangibile e violabile.





Sorelle Fontana - Ava Gardner



Come sapeva a suo tempo il divino marchese Donatien-Alphonse-François de Sade, come sa anche il più scalcagnato sado-masochista, e come sa bene anche ciascuno di noi, perché Freud ha dimostrato una volta per tutte che in fatto di sesso o di erotismo una cosa diventa una perversione solo se è la forma esclusiva di soddisfacimento, ma che tutto l’insieme di ciò che chiamiamo perversioni è presente in ciascuno di noi e rappresenta quel pizzico di peperoncino che rende più piccante e più appetibile il sesso genitale.

Anche Nietzsche, che pure di sesso e di donne ne sapeva ben poco, ma che indubbiamente era di un’intelligenza sopraffina, giunse a stillare questo apoftegma: "Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo". (Così parlò Zarathustra, III, Della visione e dell'enigma, 2.)… e mi piace pensare che, come Newton giunse a comprendere la legge della gravitazione universale osservando una mela cadere da un albero, Nietzsche sia giunto a questa verità osservando un culo femminile muoversi e cantare: “Guarda come dondolo …”.






Jacques-Henri Lartigue - Sala, at the Rocher de la Vierge, Biarritz, August 1927

Jonas Rueter, classic fine art nude posing

Un funzionario misura la distanza della lunghezza del costume dal ginocchio

Alcuni storici del costume e della moda ritengono che la predilezione per il fondoschiena, per le forme ubertose e per le linee curve sia legata ad eventi economici, come ad esempio una crisi, o ad eventi storici e politici, come una guerra o l’avvento di una dittatura. Ad esempio di ciò portano l’innegabile evidenza che durante il fascismo, il nazismo e il franchismo, era prediletta dagli uomini la donna con la vita snella, i fianchi stretti, le gambe lunghe e affusolate, ma con un bel seno e un bel culo rotondi; nel dopoguerra, appena usciti da una forte crisi economica, si affermò la donna giunonica, la maggiorata fisica.  
In realtà la forma preferita della donna cambia in base a variabili multiple difficilmente individuabili o prevedibili,  e sarebbe altrettanto facile trovare nella storia esempi di periodi bellici o di dittature in cui predominava la donna magra e slanciata, invece di quella tutta curve; mentre credo che la predilezione per il culo sia una costante universale e ubiquitaria.




La "Giumenta", Museo San Martino, Napoli.


L'ermafrodito (particolare), Louvre, Parigi.




Il culo è la fonte di desiderio più diffusa e democratica che esista, piace in qualsiasi epoca, piace ai ricchi e ai poveri, ai patrizi e ai plebei, ai nordici e ai mediterranei, ai levantini e ai ponentini, ai giovani e ai vecchi, al colto e all’inclita, al laico e al religioso, al nero e al bianco, agli uomini e alle donne.

L’unica differenza che possiamo scorgere nelle varie epoche storiche è il modo di mostrare o nascondere questa parte anatomica, la storia dei costumi maschili e femminili è piena di differenze fra le epoche e i sessi, abbiamo ancora ben presenti i complicatissimi abiti femminili che avevano l’intento di nascondere il corpo della donna, senza lasciare intuire le sue vere forme e senza lasciare intravedere alcun lembo di pelle che non fosse quello del viso.



Elliott Erwitt


Paul Sieffert, Nu sur lit de fourrure, Parigi

Erano abiti difficili da indossare, che utilizzavano stecche, corpetti di cuoio e denti di balena con lo scopo principale di trasformare la povera figura femminile in un carro allegorico, che però enfatizzava proprio ciò che voleva celare e lasciava stranamente libera proprio l’intimità, visto che in genere le donne non portavano le mutande (in Italia erano considerati indumenti da prostitute, come le graghesse che indossavano le meretrici veneziane, nonostante Isabella d’Este avesse cercato di inserirle alla corte di Mantova, mentre nemmeno tutta l’autorità e la tenacia di Caterina de Medici riuscirono ad imporre le “briglie da culo” alla corte di Francia), e che queste si sono affermate relativamente tardi nella storia dei costumi.

Viceversa, mentre la donna veniva confezionata come una bomboniera, per l’uomo si tagliavano abiti molto attillati, che mettevano in mostra i suoi attributi virili, delle calzamaglie aderenti e variamente colorate, che mettevano volgarmente in evidenza la patta, mentre enfatizzavano al contrario il petto, le spalle e l’altezza, molto spesso con l’ausilio di spalline, imbottiture e zeppe posticce.

Solo le popolane avevano una libertà maggiore, perché vestivano con ciò che trovavano e con abiti che comunque dovevano essere molto più semplici ed agevoli da indossare, visto che non avevano cameriere o dame da camera, non potevano perdere tutto quel tempo per la vestizione e dovevano essere sufficientemente libere per poter fare dei lavori manuali.




Man Ray, La Prière, 1930

Sorelle Fontana

Marc Lagrange


Nel periodo storico che sto prendendo in considerazione, quello che va dall’inizio degli anni 30 alla fine della seconda guerra mondiale, la grave crisi economica del 29 e l’insediarsi di regimi totalitari in Italia, in Germania, in Russia e in Spagna, spazzò via completamente i favolosi anni ruggenti, quelli in cui ebbe il predominio la grande euforia che seguì la prima guerra mondiale.

In quel decennio gli abiti femminili si semplificarono parecchio, le gonne si accorciarono paurosamente, i cappellini divennero un vezzo appena accennato, i tacchi si abbassarono per permettere un certo dinamismo e nel complesso la figura femminile che ne veniva fuori dai vestiti, al trucco al taglio dei capelli era quella di un “maschiaccio”, una donna sinuosa, snella dinamica, quasi maschile, che voleva ribadire in ogni campo, persino nell’aspetto, l’autonomia dal maschio e la consapevolezza del suo valore che aveva acquisito durante gli anni della guerra, in cui aveva dovuto sopperire all’assenza del padre, del fratello o del marito, occupandosi lei di quello che in genere si occupavano prima i maschi.




Mario Testino



L’avvento dei totalitarismi che propagandavano un modello di donna funzionale al regime, e i rigurgiti quasi ovunque del nazionalismo, dello sciovinismo, del sessismo e del maschilismo, fecero si che questo decennio di relativa libertà per le donne si concludesse in una sorta di ripristino dell’ancient regime quasi si fosse replicato ancora una volta il Congresso di Vienna.

Il modello di donna ora in voga non è più quello androgino ed emancipato della ragazzina viziata che gestiva il suo corpo e il suo tempo indipendentemente dall’uomo e dalla sua famiglia, la donna si femminilizza anche nelle forme, prevale la donna tutta curve, la maggiorata, che alle marcate linee geometriche preferisce la sobrietà di abiti più morbidi e fascianti, che esaltino le sue curve e talvolta le accentuino, magari con l’uso di un busto meno fastidioso di quello delle loro nonne o mamme, che restringeva la vita ed esaltava il seno, i fianchi e il sedere.









Alfred Cheney Johnston, From Enchanting Beauty, 1937


La crisi economica comporta una nuova sobrietà negli abiti femminili, le gonne si allungano fin sotto il ginocchio di giorno, e fino alla caviglia la sera, l’uso del pantalone come capo femminile elegante permane anche grazie all’esempio delle grandi star di Hollywood come Marlene Dietrich e Greta Garbo, alla seta e al raso si sostituiscono sempre più spesso i tessuti artificiali come il rayon e il nylon e la plastica è sempre più presente negli accessori, che rifiniscono e definiscono la nuova donna glamour.

Madeleine VionnetCocò Chanel e Elsa Schiaparelli in Francia, le sorelle Fontana in Italia e tutte le grandi creatrici di moda che seguirono, tendono a vestire la donna molto sobriamente, ma nello stesso tempo fanno in modo che questa sobrietà sia straripante, provocante, fortemente seducente … in una parola, molto femminile, e nessun particolare è lasciato al caso, ogni orlo, ogni aggiunta, ogni semplificazioni, ogni piega e ogni plissè sono funzionali nel gioco di attrazione fra i sessi.





Steven Klein

Brigitte Bardot, 1964


L’idea imperante è che la donna da ferma deve sembrare una dea, una di quelle statue di divinità pagane che ornano ormai tutte le capitali europee, e in movimento deve diventare poesia.

Il culo in tutto questo ha un ruolo fondamentale, è la superficie corporea del corpo di una donna più estesa, è una zona erogena fra le più sensibili, lo si vuole tondo, lo si vuole pieno, lo si vuole sodo e lo si vuole estremamente provocante, è così che si fa di tutto per inventare abiti che lo mettano in risalto quanto più è possibile.

Come può una donna comprendere l’uragano che scatena nella mente e nel corpo di un uomo la vista del suo arrière-boutique? Una donna che si piega a raccogliere qualcosa per terra, e che poi si ferma, si accorge, si gira e ti guarda maliziosa, e finisce di prendere ciò che le era caduto con più calma e più tempo di quello che occorre. O quella che si affaccia alla finestra appoggiandosi alla balaustra e sapendo che tu dietro gusterai un panorama migliore del suo.






Jeanloup Sieff, 1962



Come potevi tu comprendere quell’estate il turbamento, l’affacciarmi ad una vertigine, che mi provocavano le tue forme che riempievano completamente i tuoi pantaloni di lino bianchi, e quel filo bianco verticale che erano i tuoi slip, bianchi perché non si notassero, ma proprio perché non volevano essere notati erano più eccitanti.
Come avresti potuto comprendere quel desiderio furioso per quella semplice e stolida massa lipidica sferica, più o meno pronunciata, più o meno aggraziata, più o meno simmetrica, ed è per questo che curavi molto di più i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani, la pelle del tuo viso, i tuoi capelli e i tuoi vestiti.
Solo perché eri innamorata, forse, mi assecondavi anche senza comprendere, ti beavi di contemplare il mio volto estatico e soddisfatto, come una madre si compiace nel vedere il suo bambino che gioca felice e contento col nuovo giocattolo che gli ha regalato.

Con una mano artigliavo (perché anche afferrare è poco) l’emisfero australe, con l’altra l’emisfero boreale e mi sentivo il re del mondo … ma il re del mondo ci tiene prigioniero il cuore … e l’animale che mi porto dentro non mi fa vivere felice mai si prende tutto anche il caffè mi rende schiavo delle mie passioni e non si arrende mai e non sa attendere e l' animale che mi porto dentro vuole te. Dentro me segni di fuoco è l'acqua che li spegne se vuoi farli bruciare tu lasciali nell' aria oppure sulla terra… non saremo più né tu né io. Cerca di restare immobile, non parlare lento il respiro all'unisono rallenta il cuore. Muta la furia in ebbrezza in tenerezza lasciati andare fino ad arrivare all'estasi con me.


Venere Callipigia, Museo Archeologico Nazionale di Napoli

Van Der Keuken, Parigi

E' iniziato così:



e

CONTINUA ....


MONS - JEBEL

$
0
0




Faraglioni di Aci Trezza



"Sappi che tutte le strade, anche le più sole

hanno un vento che le accompagna

e che il gomitolo, forse

non ha voluto diventar maglione

che preferisco non imparare la rotta

per ricordarmi il mare."

(Gianmaria Testa, Sappi che tutte le strade).










L’Etna, forse dal greco Aitna (Aἴτνα-ας), da aitho (αἴθω ) che vuol dire bruciare, latinizzato in Aetna perché i romani tutto sommato rispettavano ciò che sfioravano, a cominciare dai nomi; o Mungibeddu, da Mons-Jebel [mons (latino)=montagna, jebel (arabo)=montagna, due volte montagna], o semplicemente “a muntagna”, o “idda” (lei, pronome personale femminile, personificata dunque), o “iddu” (lui), pronome personale maschile), a seconda che i catanesi e i circumetnei invochino un padre o una madre (perché l’Etna sa essere sia un padre severo e punitivo, sia una madre dolce che dispensa un’infinità di doni anche ad un centinaio di chilometri dal suo baricentro, fino a Messina a nord, a Siracusa e Ragusa a sud e ad Enna nell’entroterra), è una montagna vivente.

Pietra scura incandescente che pulsa e respira, che è visibile da distanze notevoli (da Messina, lasciati alle spalle i Peloritani e varcate le gallerie che li attraversano, ad un certo punto in autostrada ve la trovate alla vostra sinistra andando verso sud; da Siracusa basta uscire dalla periferia della città in direzione nord e ad un tratto dopo una curva vi trovate il mare alla vostra destra e a sinistra tutta la maestosità di questo vulcano).










Per andare in cima la soluzione più semplice è la funivia che parte dal Rifugio Sapienza, che si trova sul versante sud dalla montagna ed è raggiungibile sia da Nicolosi, sia da Zafferana Etnea, per il primo paese (Nicolosi), quando vi trovate sulla tangenziale di Catania uscite a Gravina e imboccate la provinciale per Nicolosi, per Zafferana dalla tangenziale uscite a Santa Venerina, da entrambi i paesi poi seguite le indicazioni marroni con la scritta ETNA.

La funivia del rifugio Sapienza vi porterà in cima in pochi minuti, in qualsiasi stagione attrezzatevi con scarpe da ginnastica, pantaloni lunghi di tessuto resistente, una giacca a vento perché anche in agosto troverete su un vento gelido, berretto e occhiali da sole, da li poi vi consiglio di continuare con dei mezzi fuoristrada che vi porteranno in un campo base a qualche centinaio di metri dal cratere ancora attivo, il biglietto potete acquistarlo al rifugio in alta quota in cima alla funivia, che è anche bar e … manco a dirlo … negozio di souvenir.




Rifugio Sapienza

Pistacchio

Zafferana Etnea-  municipio

Zafferana Etnea - Santa Maria della Provvidenza

Zafferana Etnea - Piazzetta belvedere


Nel prezzo è compresa una visita guidata ad alcuni crateri inattivi (ma ancora fumanti), ad alcuni rifugi sommersi dalla lava di cui si intravedono ormai soltanto l’arcata del tetto, sentieri e collinette da cui è possibile vedere un paesaggio mozzafiato, tutta la piana di Catania fino a Siracusa, la vegetazione rigogliosa intorno al cono del vulcano, che contrasta fortemente col paesaggio lunare e spettrale della cima, talvolta attenuato da una coltre di neve, i paesi che sorgono abbarbicati sui pendii e il bellissimo mare azzurro … nessuna montagna (che io sappia) ti offre uno spettacolo paragonabile a questo (solo nella Cordigliera delle Ande, in Cile e nella Terra del Fuoco ho visto qualcosa di simile).

Per escursioni nei crateri attivi e in tutta la zona perimetrata da corde con cartelli di divieto di accesso, bisogna prenotarsi in anticipo alle guide esperte, procurarsi o affittare l’attrezzatura più adatta per avventurarsi in zone che potrebbero essere pericolose anche per alpinisti esperti.

Perché sull’Etna, oltre ai consueti pericoli di frane, di perdersi per i sentieri, di precipitare, di farsi male storcendosi una caviglia, esistono altri pericoli dovuti al fatto che siete su un vulcano attivo (esalazioni mefitiche, terreno cedevole, possibilità di scivolare verso antiche colate che i decenni non hanno ancora spento del tutto e, infine, il pericolo di fulmini … sono morte molte più persone colpite da un fulmine sull’Etna che per tutte le altre cause di incidenti di montagna usuali).



Zafferana Etnea - Piazza

Zafferana Etnea - Antica dolceria dell'Etna




Catania


Non si possono descrivere le emozioni che ti da una esperienza di questo genere, difficile trascurare il dato di fatto che la rende diversa da ogni altra esperienza di montagna, non riesci a dimenticare il fatto che ti trovi sopra qualcosa di vivo, quando in filosofia incontrai la concezione dell’Anima Mundi (che da Democrito, Pitagora, Platone, Plotino, …, giunse fino a Goethe, Schopenhauer e a Jung, attraversando Pico della Mirandola, Ficino, Bruno e Campanella, non potei fare a meno di pensare all’Etna e al suo respiro, ai sussulti, agli urti improvvisi, ai tremori, alle esplosioni pirotecniche, specie di notte,  accompagnate da intensi fenomeni elettrici … quella era l’anima del mondo che si scuoteva.

Visitata la vetta, un bel giro nei dintorni del territorio etneo potrebbe comprendere i paesi di Nicolosi, Pedara, Trecastagni, Viagrande, Zafferana, Milo, Sant’Alfio, Linguaglossa, Randazzo, Maletto, Bronte e Adrano; oltre alla bellezza dei paesaggi, a ville, case coloniche, cascinali, chiese, ad una architettura scissa fra la solidità delle costruzioni e il senso di precarietà che la storia delle colate che hanno lambito e più raramente travolto alcuni paesi, scissione che si è trasmessa a tutta la cultura etnea e ai suoi abitanti, troverete una cucina raffinata e genuina (come le persone che vivono da queste parti, molto diverse dai loro vicini catanesi di città).

La sincerità di un vino rosso rubino spremuto secondo tradizione dai vitigni storici ivi allocati (il nerello mascalese, il nerello cappuccio, il minnella e il carricante che sono il sangue stesso di questa terra e che ad ogni sorsata berrete il fuoco stesso del vulcano), ricordando che ad esempio l’etichetta Etna DOC contiene uve provenienti in massima parte da nerello mascalese con minime aggiunte di nerello cappuccio.



Cauliceddi

Cauliceddi

Cauliceddi

Pistacchio di Bronte




Oltre a questi vitigni, importati da altrove e più di recente, trovano una buona allocazione anche grappoli di nero d’Avola, di chardonnay, di insolia, di cataratto, di grillo, …, che qui assumono peculiarità e nuanches di gusto diverse che altrove.

Prodotti tipici dell’Etna sono le nocciole, i pistacchi (quelli di Bronte sono eccezionali, di colore verde smeraldo, brillante e con un profumo intenso ), la mandorle, le castagne, mele (particolarmente buone sono le mele cola e le mele gelato cole tipiche del comprensorio etneo), pere, ciliege, miele, funghi, tartufi, olio d’oliva,  pesche “tabacchiera”, fichi d’india, fragole, ricotte e formaggi di pecora e di capra argentata (provoloni, caciotte e caciocavalli), latte d’asina, salumi pregiati (anche se i salumi dei Nebrodi sono imbattibili, merito del maiale autoctono da cui vengono ricavati: il nero dei Nebrodi), conserve varie, sottoli e sottaceti, marmellate, rosoli e distillati.

In cucina prediligete tutto ciò che ha a che fare con i funghi, col pistacchio, con la ricotta, gli antipasti con giardiniera fatta in casa (ma fate attenzione alle porzioni, che di solito sono abbondanti), primi piatti di montagna o mare e monti, grigliate di carne e salsiccia o selvaggina di piccola taglia; con l’affacciarsi della primavera affiorano fra i sassi e fra i rovi le erbette spontanee, particolarmente prelibate sono quelle che in quel luogo vengono chiamate le “sparacogne” (mentre dalle mie parti vengono detti “sparici sarbagghi”, asparagi selvatici o semplicemente “sparici”), con cui ci si possono fare ottimi primi piatti, minestre con l’uovo e frittate.






Asparagi selvatici

Asparagi selvatici

Nocciole


O i cosiddetti “cauliceddi” (altrove denominati anche strigoli, stregoli, verzit, bubbolini, erba sciupeta, … o, in italiano, silene), che possono trovare svariati utilizzi in cucina: cruda in insalata, da sola o con altre erbe spontanee, condita con olio e limone, lessata, amalgamata a farina per fare paste verdi e gnocchi, come ripieno per ravioli o tortellini, in frittate, in torte salate, in minestre con altre verdure, orzo o cereali, nel risotto o come condimento di una pasta.

Infine rimangono i dolci, ma non voglio parlarne, perché dei dolci come dell’amore non bisognerebbe parlarne ma assaggiarli, al massimo li si sfiora semplicemente col pensiero, li si pregusta per stimolare l’appetito … lasciatevi sempre uno spazio per un dolce, e questo vale in tutta la Sicilia, non solo per l’Etna.





Jocelyn, asinello etneo "sciccareddu"





In ogni caso, dovunque vi fermiate a mangiare quasi sicuramente mangerete bene (tranne forse in quei locali turistici col menù corredato di immagini gigantografate, che si trovano nei pressi di qualche attrazione turistica, e che vi offrono gli immancabili spaghetti, tortellini  o le lasagna alla bolognese, le trofie col pesto genovese, i bucatini all’amatriciana, gli spaghetti alla napoletana ca pummarola ‘ncoppe e la pasta con le sarde, sia che vi troviate sull’Etna sia in Val D’Aosta).

Ma se accettate qualche mio consiglio, vi troverete benissimo da Boccaperta a Linguaglossa, ai Quattro Archi a Milo, da san Giorgio e il Drago e da Scrivano a Randazzo o, se volete rimanere nei dintorni del Rifugio Sapienza, a La Cantoniera (basta alzare gli occhi su una delle collinette intorno e scorgerete un edificio rosa).

Dove dormire non saprei, tutte le volte che sono stato sull’Etna sono tornato a dormire al mio paesello d’origine, in ogni caso è .più facile consigliare dove andare a mangiare che dove andare a dormire, perché in questo secondo caso le variabili sono più numerose e vai a toccare più incisivamente lo stile di vita di ciascuno.



Mostarda


Marinella Fiume - scrittrice etnea





Certamente se vuoi goderti l’Etna, fare escursioni, a piedi, in bicicletta, a cavallo, visitare. fotografare, documentarti, girare di paese in paese, viene naturale dirvi che dovreste trovare un posto proprio sull’Etna, uno di quei tanti hotel, resort, agriturismi, locande con alloggio, che vi sono sorti negli ultimi decenni; anche qui ho qualche indirizzo di seconda mano, suggeritomi da qualche amico, ad esempio Il nido dell'Etna a Linguaglossa, Il Ghebel Resort a Milo il Corsaro a Nicolosi e l’Airone a Zafferana Etnea.

Se, invece, volete godervi l’Etna senza affrontare sentieri, escursioni ed imprese impegnative e  senza strafare, se non vi piace andare a letto con le galline, subito dopo cena, se oltre alla passeggiata nella piccola piazzetta del paese, che quando hai mangiato il tuo cannolo o il tuo gelato, non hai nient’altro da fare, allora è proprio il caso d fare tappa a Catania, città molto bella, raffinata e vitale, che vi offre tutto lo svago, il divertimento e le emozioni che volete.

Avendo qualche giorno in più e voglia di godervi le bellezze della Sicilia, innanzitutto Catania, una città stupenda … non vi basterebbe un mese e forse nemmeno tutta la vita per cogliere quant’è bella Catania e per entrare nella mentalità tipica di un catanese; un giro molto interessante sarebbe quello lungo la cosiddetta Riviera dei Ciclopi, da Catania imboccate la SS 114 in direzione nord verso Aci Castello, Aci Trezza, Acireale, Aci Catena, Aci Sant’Antonio, Aci Bonaccorsi, Aci Platani, …, da queste parti non si fondava un paese senza prima il prefisso Aci … fino a Giarre (o Riposto, a seconda di come gira il vento), continuando su questa strada si può arrivare fino a Giardini Naxos e Taormina.



Risotto con "cauliceddi"



Etna - Valle del Bove



Non devo dirvi io quale bellezza posseggono questi luoghi, sia a livello naturalistico, è qui che sono nate molte ambientazioni del “ciclo dei vinti” di Giovanni Verga, la cui bellezza luminosa fa da contrasto lacerante alla crudezza e alla brutalità della sorte umana; in questi luoghi aleggia il mito, potrebbe apparirvi da un momento all’altro Ulisse sbarcato in cerca d’acqua e di cibo, i lestrigoni, i lotofagi, i buoi sacri al dio Sole, le sirene, Scilla e Cariddi, Afrodite che sorge dalla schiuma del mare, la nave di Enea con ancora a bordo Palinuro, che vi saluta, prima di precipitare in mare poco più a nord, e state pur certi che quel pennacchio che esce dalla cima dell’Etna è Polifemo che fa la ricotta.

Poco più a sud di Taormina (e anche di Giardini), c’è una strada verso l’interno che conduce alle Gole dell'Alcàntara, un canyon naturale di roccia basaltica scavato nel corso dei secoli dal fiume Alcàntara, le cui pareti più che levigate dolcemente dalle acque sembrano graffiate dagli artigli di una tigre; esiste .una scala per scendere e risalire che non è molto impegnativa, per i più pigri c’è un comodo ascensore, gratuito se ricordo bene, in basso si possono affittare degli stivali per inoltrarsi nel greto del fiume, attenti alle scivolate … l’acqua è gelida anche in estate.

Più distante c’è Tindari, raggiungibile percorrendo la Catania-Messina in direzione nord verso Messina e qui prendete l’autostrada Messina-Palermo in direzione di Palermo, non ricordo esattamente quali uscite dovrete attraversare prima di arrivare, sicuramente passerete Milazzo, Tindari è segnalata, non potete sbagliarvi.

Qui potrete visitare ciò che gli scavi archeologici hanno fatto emergere del passato greco- romano, la cinta muraria, il teatro, la “basilica”, edifici e templi romani e il Santuario della Madonna Nera, situato dove una volta sorgeva l’agorà, la “laguna sabbiosa” di Tindari è visitabile attraverso una scala che vi giunge direttamente.

È tutto, ciò che io non ho scritto lo scoprirete da soli, un abbraccio a chi parte ed ha già la valigia pronta e vasuneddi a tinchité a chi resta o va altrove.



Minchia, a Circumetnea mi scurdai, ma unni l'agghiu a testa? Nun mancati ri farivi nu giru 'i vozziga, domando perdono a tutti. 
Baciamo le mani.




"Ciuri di rosi russi a lu sbucciari,

amara a l'omu c'a fimmini criri,

amara a cu si fa supraniari

lustru di Paradisu non ni viri.

Rit: ciuri ciuri ciuri di tuttu l'annu

l'amuri ca mi dasti ti lu tornu

ciuri ciuri ciuri di tuttu l'annu

l'amuri ca mi dasti ti lu tornu ..."






UTERO IN AFFLITTO

$
0
0







«“Pure tu sei addiventata zoccola!”, “Si!”. “E denari l’hai fatte?”, “Si!”, “Meglio accussi, mo’ chiudi bottega e ce spusammo subito, ci sta poco tiempo, io voglio figli, molti, 25-30, noi dobbiamo diventare tanti e forti, perché ci dobbiamo difendere.  Fra poco ci scanneremo a vicenda per un bicchiere d’acqua, pe’ nu piezzo e pane, è pe chesto c’havimmo a essere assai, pe ce difendere. Hai capito?”. “I’ t’aggio sempe voluto bene, i’ so’ pronta!”. “Subito! Nun ce sta tiempo!”. “Pasquà, ma che dici? Nun te preoccupà, ringrazia a Maronna che t’ha fatto ‘a grazia e turnà. Nun ce pensà chiù, è passato. Chello che è stato è stato, chi ha avuto ha avuto e chi ha rato ha rato! Guardate, guardate figlio mio tu stai na bellezza, mo’ è finita, nun ce pensà chiù a ste miserie. Pasquà tu si vivo, vivoooo”. “Si, so vivo!”».

(Pasqualino settebellezze, di Lina Wertmüller, con Giancarlo Gianninie Francesca Marciano, dialogo finale).









Pasquale Frafuso, detto Pasqualino Settebellezze proprio perché è tutt’altro che bello eppure non si capisce come faccia ad avere successo con le donne, è proprio “ ‘o sfaccimm e l'uommene”, un uomo da nulla, “ ‘n’ommo e niente” insomma.

Unico maschio in una famiglia composta da sette donne (la madre e sei sorelle), poveri in una società feroce che tende a sfruttare il debole come la Napoli degli anni 30, Pasqualino, che non è un pilastro d’uomo, anzi è piuttosto male in arnese (interpretato da un Giancarlo Giannini più magro del solito e vestito appositamente con abiti eccessivamente larghi, lunghi ed ampi che lo fanno apparire più piccolo di quanto non sia in realtà), cerca disperatamente di mantenere tutta la sua famiglia sul cammino del decoro, del rispetto e dell’onore.

Data la scarsità di mezzi economici, la famiglia convive con un’altra (divisi da una cortina di tende, ma in realtà senza poter godere di una vera e propria privacy, anzi vivono immersi nella promiscuità, e le pacche nel sedere, che sembrano essere gradite e accolte con un sorriso, sono molto frequenti e sembrano un modo abituale dei maschi di quell'ambiante di salutare le donne).

Madre, sorelle e conviventi, tutte le donne di casa insomma, lavorano alacremente a cardare la lana per confezionare materassi, un lavoro non certo prestigioso, anzi piuttosto umile e ripetitivo, anche poco remunerativo, ma è pur sempre una fortuna averlo e mantiene decorosamente tutta la famiglia.
In particolar modo permette al gallo di casa, a Pasqualino, di andarsene in giro per Napoli con la falcata elastica di chi non “tiene pensieri”, fischiettando, corteggiando le ragazze, sempre ben vestito e ben calzato, col baffetto da sparviero molto ben curato e con i capelli costantemente unti di brillantina e tagliati secondo la moda, con l'occhio di triglia e i modi da guappo.

Ma non ha fatto i conti con l’infinita stupidità femminile quando questa si coniuga alla massiccia svalutazione di sé, della propria bellezza, della propria avvenenza, realizzando di non piacere a nessuno; anzi trasforma questo sentimento nell'opposto, nel sentirsi affascinante e di poter piacere a tutti.
Quando si risolve ad elemosinare un briciolo d’amore da un uomo pure quando questo amore palesemente non c’è, ed è sostituito dallo sfruttamento (pensate per un attimo alle recenti vicende dell’ex ministro Federica Guidi, che si definiva “sguattera del Guatemala”).

La sorella maggiore Concettina (interpretata dall’attrice Elena Fiore), stanca di cucire materassi, alla tenera età di trentasette anni, goffa e volgare nei movimenti, esteticamente brutta e canoramente stonata e con la voce rauca, viene colta dalla vaghezza di calcare il palcoscenico, di cantare e di ballare, di diventare una donna di spettacolo di successo, acclamata e applaudita.

Come se ciò non bastasse, si innamora di un certo “Totonno e Diciotto Carati”, altro personaggio di mezza tacca il cui nome altisonante e l’immagine di sé grandiosa serve a occultare la reale miseria di ciò che si è, il quale dietro ad un teatro di periferia alquanto sgangherato nasconde la sua vera attività, che è quella del magnaccia.








Concettina viene irretita con la possibilità di esibirsi nei migliori teatri e, forse, anche con la promessa di un matrimonio, in realtà ben presto si trova nel locale del suo “fidanzato” in abiti discinti ad accogliere i clienti; è qui che, su segnalazione, la trova il fratello e, nel tentativo di riportarla a casa, viene fermato dal Totonno con due schiaffi.

Pasqualino non è certo migliore di lui, entrambi non fanno un vero lavoro per vivere, entrambi sono mantenuti dalle donne, entrambi hanno un senso della dignità e dell’onore che è tipicamente mafioso; Pasqualino non può accettare la pubblica umiliazione subita, ed è così, da questo momento, che si mette in mano alla camorra, impersonata da Don Raffaele che lo consiglia di eliminare il suo rivale, se vuole riacquistare l’onore e si offre di procurargli una pistola e un piano per ucciderlo.

Con qualche difficoltà Pasqualino uccide davvero Totonno poi, come consigliatogli da Don Raffaele, si accinge a tagliarlo a pezzi e metterlo in tre valige, per poterlo trasportare meglio; giunto in stazione però, a causa del suo agire maldestro e di una serie di contrattempi, viene scoperto col cadavere nelle valige ancora in suo possesso e arrestato.

Gli avvocati della camorra, ormai Pasqualino è un pupo nelle loro mani, contribuiscono a farlo ritenere infermo di mente e ad evitargli il carcere a vita sostituito da 12 anni da scontare nel Manicomio Criminale di Aversa; più che Settebellezze avrebbero dovuto chiamarlo Settefortune, perché la sua insanità mentale lo preserva dal partecipare ad uno dei più assurdi e sanguinosi conflitti di tutti i tempi, la Seconda Guerra Mondiale, migliaia di giovani sani di mente, infatti, vengono inviati al fronte a combattere e molti di loro non faranno più ritorno.

Ma Pasqualino, che è riuscito a conquistarsi la fiducia dello staff medico, viene lasciato relativamente libero all’interno del manicomio, dove svolge qualche lavoretto di pulizia in cambio di qualche privilegio, si caccia di nuovo nei guai  perché viene sorpreso a violentare una donna legata in un letto di contenzione; questo episodio molto grave fa si che egli perda ogni protezione e ogni privilegio ed è costretto ad arruolarsi nell’esercito per essere inviato in Russia.

Qui, insieme al compagno Francesco, disertano e tentano di ritornare a casa attraversando la Germania, ma vengono miseramente catturati dai nazisti e condotti in un campo di concentramento; Pasqualino pur di sopravvivere alla follia del campo di sterminio e alla crescente ferocia dei nazisti che presagiscono la sconfitta e si accaniscono ancora di più contro tutti coloro che ritengono nemici, decide di sfruttare il suo inspiegabile fascino con le donne e di sedurre nientemeno il feldmarescialllo Hilde, un donnone che comanda con polso di ferro il campo di concentramento.








Ricorda in quegli istanti drammatici che sua madre gli diceva che in ogni donna, se sai scavare bene, troverai un po’ di miele … in ciascuna, ma proprio in tutte tutte? Ho i miei dubbi, ci sono donne senza miele, o il cui miele non è destinato a te in nessun caso, Pasqualino dunque rischia e anche parecchio, perché Hilde è pur sempre "è una sadica e feroce assassina", come gli ripete Francesco.

 Ma lui insiste e smuove qualcosa in quell’ammasso di carne e disciplina, cosa smuove non è chiaro, ma per i fini di Pasqualino poco importa, da quel momento diventa l’amante … o meglio, l’uomo di monta, della comandante del campo, diventa un kapò della sua baracca e si macchia delle peggiori infamità, come selezionare i detenuti da fucilare perché accusati di furto di viveri e, in un crescendo drammatico e degradante, uccide con le sue stesse mani Francesco, l’amico di molte vicissitudini e sventure, che stanco di subire si ribella a quella grandiosa assurdità.

Quando la guerra finisce e i soldati sovietici (non americani, come ipocritamente narra Roberto Benigni nel suo La vita è bella, nella speranza di racimolare un oscar, che poi ha vinto davvero e forse l’avrebbe vinto senza quella piaggeria) liberano i detenuti sopravvissuti ai campi di concentramento, Pasqualino se ne torna a casa nella sua Napoli, si accorge che tutte quante le sue sorelle sono “addiventate zoccole”, anche la ragazzina il cui sguardo moriva dietro al suo profilo è pesantemente truccata e non si contano più i soldati stranieri con cui è andata a letto.

Nell’Italia “liberata”, semidiroccata dai bombardamenti, povera di viveri perché i raccolti erano andati distrutti o erano marciti sulle piante in assenza di chi li cogliesse, col mercato nero che proponeva i beni di prima necessità a prezzi improponibili e con il razionamento che li distribuiva in quantità insufficienti dopo lunghe file, fare la vita, battere il marciapiede, ricevere uomini era diventato il mestiere più redditizio con tutti quei soldati americani, inglesi, indiani, canadesi, australiani e nord americani nel nostro territorio.  

Ma anche lPasqualino era “addiventato zoccola” vendendosi a Hilde nel campo di concentramento, e chissà quante altre volte si era venduto (e continuerà a vendersi) pur di sopravvivere; quanti intorno a loro erano “addiventate zoccole” pur di continuare a galleggiare, pur di ritagliarsi in centimetro di terra o di cielo .. politici, militari, burocrati che gettavano al vento ogni loro ideologia, ogni credo, ogni religione, e diventavano ipso factoantifascisti convinti e capitalisti integrali.

Le loro donne indossavano le vesti americane, mangiavano cioccolata, fumavano camel o marlboro, ballavano il twist o il booghie booghie, gli uomini facevano i magnaccia, erano per così dire comprensivi, per bisogno o per privilegio, i loro figli lustravano le scarpe agli ufficiali o ai sottufficiali, nascevano bambini di colore …   Io nun capisco 'e vvote che succere, e chello ca se vere nun se crere. E' nato nu criaturo, è nato niro, e 'a mamma 'o chiamma gGiro, sissignore, 'o chiamma gGiro.








I figli, i nipoti e i pronipoti di Pasqualino Settebellezze sono fra noi, si sono moltiplicati, hanno sgomitato, hanno studiato, fanno politica, amministrano la cosa pubblica, sono burocrati asserragliati in qualche ufficio, pronti a vendere cara la pelle e a ricattare ogni amministrazione che voglia ben apparire (non necessariamente ben fare), fanno impresa … o meglio, approfittano di ogni buona occasione per ricavarne soldi e potere, senza amare niente e senza produrre niente di rilevante.

Sono ossessionati dalla loto riproduzione, dall’essere in tanti, dall’essere forti, e se la riproduzione genetica non basta, fanno proselitismo, invocano conversioni, esercitano intimidazioni, moralismi, verso chi è diverso da loro, fino alla caccia alle streghe e al rogo più o meno simulato.

Un uomo libero non vuole che tutti gli altri indistintamente siano uguali a lui, che pensino come lui, che si comportino come lui, tollera e auspica, anzi, la differenza, ne trae linfa vitale di confronto; ma questi tremebondi individui che si affastellano dietro un totem politico, religioso o pseudo scientifico e naturalistico cercano l’omologazione, tendono a piallare qualsiasi differenza, anche a costo i costringere, anche a costo di piegare e di distruggere … e per poter piegare un uomo libero hanno bisogno della forza, devono essere in tanti.

D’altronde l’hanno già fatto, la storia parla chiaro, in duemila anni il cristianesimo ha spianato sistematicamente ogni oppositore gli si sia presentato nel suo cammino, come ogni mafia che si rispetti, non è prevista la convivenza, la tolleranza, la loro esistenza esclude ogni diversità, a costo dello sterminio … il nazismo è l’espressione più alta e più organizzata del cristianesimo e di ogni religione monoteista, per cui la propria “verità” esclude ogni altra verità, il proprio dio esclude l’esistenza di ogni alto dio … e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, basta vedere ciò che sta accadendo in Palestina, o in Siria, o anche qui da noi in Occidente a partire dall’11 settembre 2001.

Duemila e passa anni dopo l’avvento di Cristo è cambiato qualcosa nell’umanità? Siamo migliorati o, al contrario, ci scanniamo fra di noi con più convinzione e con meno sensi di colpa di prima, perché crediamo che sia un dio che lo vuole? Quanti sacerdoti, imam o rabbini hanno invocato la guerra santa, hanno benedetto le armi? Quanti hanno stretto accordi con i più feroci carnefici pur di perseguire i soliti obiettivi: prestigio e potere?

Se venisse il vostro Cristo sulla terra cosa ne penserebbe della vostra indifferenza, del vostro cinismo, della vostra imbecillità di fronte ad una tragedia come quella dei migranti che bussano alle nostre porte per chiedere asilo …  “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Matteo, 25, 35-36).








Questi individui sono, come Pasqualino, deboli con i forti e forti con i deboli, come lo è ogni fascismo che si rispetti (approfitta della matta legata nel letto di contenzione nel Manicomio Criminale di Aversa,  si prostituisce in maniera degradante con la comandante del campo di concentramento),  e sono “addiventati zoccole” tutti quanti … un parapiglia, non ci si capisce più nulla.

Politici che sembrano messi li dal potere economico perché facciano i loro interessi, giornalisti che celebrano i politici “deviati”, figure istituzionali che hanno propugnato per anni il libero mercato, la globalizzazione, la libertà e la convenienza come unico criterio d’impresa, l’apertura delle frontiere per la libera circolazione delle merci e non dicono una parola sugli innumerevoli muri che vengono eretti in Occidente per tentare di arginare la povertà, la disperazione, la speranza di una vita migliore, che noi stessi abbiamo provocato e suscitato.

Muri che mortificano fino ad uccidere la nostra poliedricità e la nostra umanità e fanno emergere solo chiusure, egoismi, grettezze e meschinità, per questo dico a voi, che ancora possedete un briciolo di sensibilità, di umanità, qualche lampo di intelligenza, di fare figli, molti, “25-30, noi dobbiamo diventare tanti e forti, perché ci dobbiamo difendere.  Fra poco ci scanneremo a vicenda per un bicchiere d’acqua, pe’ nu piezzo e pane, è pe chesto c’havimmo a essere assai, pe ce difendere”.

Fate un po’ come vi pare, se siete giovani usate il metodo tradizionale, o il viagra, o le tecniche assistite, l’adozione o l’utero in affitto, educate i figli degli altri se siete insegnanti, ma trasmettete a chiunque vi capiti a tiro il bagliore della vostra umanità, qualche lampo di conoscenza, la curiosità verso l’ignoto e, soprattutto il dubbio.

Perché tutti i conflitti derivano da certezze assolute, mentre dal dubbio deriva ogni ulteriore ricerca e ogni passo avanti dell’umanità e, visto che parliamo di dubbi, permettetemi di dubitare anche di questo mio appello alla prolificazione, io non ho figli, non penso di averne e non ho smanie di adottarne o di seminarne in uteri peregrini, ogni fascismo ha propagandato la figura dell’uomo come carne da macello per le guerre o come muscoli per la produzione e la donna come ristoratrice e come fucina per la riproduzione.

Non tutti i fascismi si sono sempre francamente definiti fascismi, e persino il fascismo non era “fascismo” prima di conoscerlo e di vedere dove sarebbe andato a parare, solo in pochi avevano compreso fin dal suo esordio cosa sarebbe stato, non a tutti era sembrato da demonizzare, anzi riscuoteva simpatie nella media borghesia di Paesi come la Francia, l’Inghilterra, la Svezia, che pure finirono per combatterlo.








Talvolta il fascismo si è anche chiamato liberalismo (un liberale è un fascista in giacca e cravatta e Mussolini non sarebbe andato al governo senza l’appoggio dei liberali), o democrazia cristiana (perché il cristianesimo ha una struttura profondamente verticistica e profondamente fascista, non a caso sigla due grandi e strategici accordi sia col fascismo in Itali, sia col nazismo in Germania, in funzione anti-comunista).

Oggi da noi si può chiamare anche Lega, o insinuarsi nei movimenti populisti come l’M5S o Forza Italia, ma è strutturale anche nel PD, ridotto ad espressione momentanea dei cosiddetti “poteri forti” (chiesa, mafie, lobby economiche, massoneria …) che all’ombra di un ragazzotto ambiziosetto messo li apposta con tutto il circo equestre di persone ricattabili per ambizione, stupidità, amicizie e sodalizi discutibili, fanno i propri affari come e meglio di prima.


A volte ha l’aspetto di un tizio calvo, tarchiato, tracagnotto, con la mascella volitiva e con pose da buffone che viene scambiato per un grand’uomo, altre volte può sembrare un manichino della Rinascente con dei ridicoli baffetti e un modo di agitarsi e di parlare francamente isterico, altre volte ancora può assumere la fisionomia del grande vecchio saggio col capo canuto, o quelle di un giovane di belle speranze, un chierichetto o un boy scout … ma mai egli prende su di sé la possibilità del dubbio, mai parla a partire da sé, ma sempre in nome di qualcosa di più grande, di trascendente, che dovrebbe imporsi a prescindere.






SIGN 'O THE TIMES

URUK HAI

$
0
0




“ … la ferocia dell’uomo nei confronti del suo simile supera tutto ciò che possono fare gli animali, e che di fronte alla minaccia che essa scaglia sulla natura intera persino gli animali recedono inorriditi”. (Jacques Lacan, Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, in Scritti, vol. 1, p. 141).









Il bambino abusato è spesso un bambino poco sorvegliato, solo, in alcuni casi non desiderato e persino superfluo: nato in un determinato contesto, già strumentale in quell’ambito, funzionale a mantenere il legame, quando questo contesto muta, il bambino diventa un peso, ed è in quel momento che può diventare il “fiero pasto” del pedofilo, con la complicità dei genitori o con la loro incuria.

La famiglia del bambino abusato è, in genere, una famiglia disorganizzata, talvolta costituita da un solo genitore (quando ci sono entrambi i genitori il padre è abitualmente assente, inconsistente, il che è peggio di quando è un pessimo esempio), in genere la madre, che nutre e cura fisicamente i suoi figli, non riesce ad essere loro vicina emotivamente, non ne comprende le esigenze affettive e ciò fa in modo che questi bambini, trascurati per molto del loro tempo e affamati d’affetto, possono essere attratti dalle attenzioni del pedofilo.

È necessaria una svalutazione di sé molto profonda e una altrettanto intensa devastazione interiore per non riuscire ad essere presente col proprio figlio, per non accorgersi del grande disagio (un bambino non riesce a nascondere un evento così grande, magari non trova le parole o le lacrime, ma il dolore è li se riesci a vederlo, se lo vuoi vedere), è necessario un naufragio totale della tua esistenza per giocare la vita e il benessere di tuo figlio sul tavolo delle contrattazioni dei rapporti umani.

Il pedofilo è un tizio mai cresciuto, convinto di essere un bambino cerca rapporti con gli altri bambini, ma essendo anche fisicamente adulto impone i codici della sessualità genitale al mondo del bambino, che ne è ancora estraneo.









Come se questo non bastasse, il pedofilo non è soltanto uno che voglia avere un rapporto sessuale con un bambino, ma anche uno dotato di una ferocia e di un sadismo estremi, il limite fra approfittare sessualmente e infliggere dolore, umiliazione e sofferenza è molto labile, anche il pedofilo in apparenza più candido e gentile può arrivare a seviziare e perfino ad uccidere un bambino qualora si trattasse di scegliere fra salvare la sua immagine, la sua libertà, il suo “buon nome” e la vita stessa del bambino.

Un pedofilo è spesso un tale che a sua volta è stato abusato, fisicamente e/o psicologicamente, uno che fa confusione fra sessualità adulta e sessualità infantile, uno che può confondere il proprio stesso sangue (essere, dunque, anche incestuoso) e quello altrui, oppure uno che è vissuto in una famiglia disgregata, esattamente come le sue piccole vittime, per questo inizialmente si pone come elemento riparatore per la solitudine e la sofferenza del bambino.

È un disagio talmente grave e profondo che i clinici danno poche speranze terapeutiche, la pedofilia è totalmente egosintonica, non viene percepita come un problema interno, etico, non crea sensi di colpa, spesso è condivisa da altri sodali con cui ci si incontra e ci si rinforza a vicenda, vengono creati gruppi di scambio di immagini pedopornografiche o di racconto delle proprie orride imprese.

L’unica cosa che si teme è quella di perdere la “maschera”, un pedofilo è spesso inserito in ambienti che gli danno una reputazione inattaccabile e lo mettono in contatto con le sue possibili prede: può essere un insegnante, un preparatore atletico, un prete … uno di cui non ci si meraviglia se ha dei rapporti o delle attenzioni per i bambini.









Potrebbe anche mostrarsi, per una donna sola, separata, con figli piccoli e lontana dalla famiglia d’origine e con poche amicizie vere, come una specie di principe azzurro innamorato di te e a cui piacciono i tuoi bambini; lentamente pur di non perderlo una donna scellerata può accettare di dargli in pasto i propri figli, di chiudere un occhio o addirittura di costringerli.

Il pedofilo non cambia, non facilmente, alcuni colleghi che ci hanno a che fare, disperati, dicono di rinchiuderli e di buttare via la chiave, la stessa disperazione unita all’impotenza porta a pensare a soluzioni estreme, alla castrazione chimica  (qualche sadico anche a quella fisica).

L’unica cosa che li può smuovere a un ravvedimento di facciata è la paura della punizione, della ritorsione (avete presente qual è la sorte di un pedofilo quando entra in un carcere?), o di perdere la libertà, ma non è il caso di fidarsi di questi cambiamenti repentini e, a meno di un miracolo in stile Lourdes, è bene diffidare anche dei cambiamenti più lenti, non è necessariamente vero che l’età avanzata e la prolungata carcerazione (magari corredata dalla “buona condotta”) restituiscano sempre un soggetto nuovo.      






RITRATTO DI UN PEDOFILO


“Lo scongiuro della morte appare allora come il vero significato dell’operazione seduttiva e dell’incubo fallico della prestazione.

[Da qui in poi è una lunga nota al testo].

Il riferimento al nostro ex premier si impone. Non si può intendere davvero il rituale divenuto celebre come ‘bunga bunga’ se non lo si mette in rapporto al sacrario monumentale che Silvio Berlusconi ha edificato nella sua villa di Arcore per ottenere un posto nell’eternità e che sembra mostri, con un certo orgoglio, ai suoi ospiti. È quello, in effetti, lo sforzo supremo per consegnare la sua immagine all’eternità, sottraendo la sua potenza fallica ai tarli del tempo. Una specie di viagra di marmo che dovrebbe permettere all’uomo, mortale come tutti, di erigersi come un fallo gigante al di là della corruzione del tempo. La tragica (e farsesca) verità del ‘bunga bunga’ è tutta in questo esorcismo affannato dallo spettro della morte, nel rifiuto del tempo che passa, nell’ostinato attaccamento a una immagine di sé che non è quella di un uomo anziano, minato dal passare irreversibile del tempo, ma di un giovanotto in perenne calore. È la grande lezione della clinica psicoanalitica della perversione: il vero luogo del ‘bunga bunga’ non è il lettone di Putin, ma il sacrario, il mausoleo cimiteriale dove viene preparato illusoriamente un posto nell’eternità. Nessun eroismo, nessuna arte della seduzione, nessuna passione. Nel sesso il nostro ex premier cerca piuttosto la prova della sua esistenza. La prestanza fallica del proprio corpo è il suo vero e unico tarlo. La sua vita è totalmente catturata dallo specchio. Tutto è concentrato sul proprio Io. Come potrebbe dedicarsi, se non a tempo perso, ad altro … ? Meglio far ‘girare la patonza’, l’amuleto, il feticcio che lo protegge dalla morte assicurandogli di essere ancora vivo. Il suo ‘amore per le donne’ nasconde questo uso solo psicofarmacologico e non erotico dei corpi femminili. Si tratta di una schiavitù che costituisce un potente rimedio nei confronti della sua angoscia di morte e che per tale ragione – come avviene frequentemente in questi casi clinici – gli fa perdere la testa esponendolo ai comportamenti più autolesivi, rendendolo, per esempio, vittima di ricattatori senza scrupoli. La moltiplicazione affannosa dei corpi, la ricerca incestuosa (‘Ho due bambine …’) e vampiresca della loro giovinezza (‘Ventinove anni è già vecchietta’), la verifica ossessionata della propria resistenza fallica (‘Me ne sono fatte otto’), l’esibizione continua della propria immagine di uomo di successo celebrato dai sondaggi, mostrano come il godimento perverso di Silvio Berlusconi non dia in realtà alcuna soddisfazione, ma esiga, come un vero e proprio tiranno, unicamente la sua ripetizione compulsiva. Siamo stati del resto avvertiti da chi lo conosceva bene: il solo interesse del ‘drago’ è quello di ricercare nelle sue ‘vergini’ la linfa impossibile dell’immortalità [Parole come “drago” e “vergini” fanno riferimento alla seconda lettera che Veronica Lario, ex moglie di Berlusconi, inviò a Repubblica per annunciare il suo divorzio dal marito e di cui vi aggiungo uno stralcio dove affronta il problema in questione: “Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni. Chiudo il sipario sulla mia vita coniugale. Io e i miei figli siamo vittime e non complici di questa situazione. Dobbiamo subirla, e ci fa soffrire…Non posso più andare a braccetto con questo spettacolo. Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell’imperatore. Condivido. Quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore. E tutto in nome del potere … Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà…e per una strana alchimia, il paese tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore. Ho cercato di aiutarlo…ho implorato le persone che gli stanno vicino di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E’ stato tutto inutile. Credevo avessero capito…mi sono sbagliata. Adesso dico basta”].

Dobbiamo vedere tutta l’angoscia (e la sua negazione) che trasuda da questo corpo anziano impegnato in un forcing disperato e senza alcuna possibilità di riuscita. In esso il desiderio di niente come desiderio dell’Altro raggiunge il suo apice perverso: l’esercizio di una padronanza di godimento che si vorrebbe sottrarre all’incidenza fatale del tempo, l’affermazione del corpo sessuale che si vorrebbe realizzare come monumento, come statua in grado di risparmiare il feticcio fallico della detumescenza impietosa imposta dalla morte.

(Massimo Recalcati, I ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano, 2012, p. 86-88, € 14).





LE GRAND PARTAGE

$
0
0



« Sentinella: "Chi va là?"

Oreste Jacovacci: "Ma che fai aoh, prima spari e poi dici chi va là?"

Sentinella: "È sempre mejo 'n amico morto che 'n nemico vivo! Chi siete?"

Oreste Jacovacci: "Semo l'anima de li mortacci tua!"

Sentinella: "E allora passate!"»

(La grande guerra, di Mario Monicelli, con Vittorio Gassman e Alberto Sordi, 1959).




(Tutti romani ... e camurristi anche!)







A causa di un’ondata anomala di freddo rigido e persistente, per trovare un alloggio e un riparo ai numerosi senzatetto che popolano la Francia (a Parigi nelle metropolitane ci sono più clochards che treni in partenza), numero vieppiù aggravato dalla crisi economica e dalle ondate di immigrati che giungono in Europa, il governo francese (di sinistra) firma un decreto che requisisce tutte le abitazioni sfitte e, non essendo questa misura sufficiente, impone ai cittadini di ospitare un numero di sans logis pari ai metri quadri e ai vani di abitazione disponibili.

Tranquillizzatevi, è una misura che nemmeno la Cina di Mao avrebbe potuto prendere, nessuno può invadere la vostra abitazione privata e imporvi di ospitare degli estranei, ma nel film è una trovata che funziona, nessuno la trova grottesca o paradossale, forse perché anche se non è reale fa parte delle nostre paure.

Ricapitolando, si incrociano, dunque, tre delle nostre principali paure in questo film: da un lato i cambiamenti climatici, caldi, freddi, siccità, piogge torrenziali, alluvioni, sempre più frequenti ed improvvisi, che causano disastri ambientali e problemi alla viabilità e all’agricoltura; dall’altro la grande crisi economica che ci colpisce e che rende incerto e vagamente pauroso il nostro futuro e, infine, la “pacifica” invasione di migliaia di persone provenienti dall’Asia e dall’Africa che giungono sulle nostre coste con barconi di fortuna o che tentano di attraversare le nostre frontiere con ogni mezzo lecito e illecito, che ci fa temere che dovremmo spartire la nostra ricchezza, il nostro benessere, con degli estranei, che diventeremo tutti più poveri, che la nostra identità personale, sociale e religiosa sia messa in crisi dal confronto col diverso.

Tema unificante è questa grande spartizione che temiamo più di ogni altra cosa, non a caso il film originale si intitolava Le grand partage(malamente tradotto in italiano con Benvenuti … ma non troppo), ed è da questa paura della grande spartizione che nasce tutta la comicità di questo film, dall’osservare, come se fossimo dei biologi naturalisti, dei piccoli Linneo o Darwin, cosa succede date queste premesse nel 6° arrondissement, uno dei quartieri residenziali più chic di Parigi, nella Rive Gauche, in cui i palazzi più belli, eleganti e nobili della città sono abitati dall’alta borghesia cittadina.

Impietosamente la regia tratteggia dei ritratti che condensano gli stereotipi più biechi della borghesia parigina: la coppia di ebrei misantropi, che preferiscono abitare in un buco di appartamento che prendono in affitto per l’occorrenza, pur di non coabitare con degli estranei nel proprio appartamento spazioso, e che quando lui le dice che vuole uscire a parlare con qualcuno dopo giorni di auto-segregazione, lei lo guarda stupita e gli replica: “Ma che bisogno c’hai, ci sono qua io ….”.








Il signore eccentrico che esce a far la spesa con un’elegante pelliccia, che accoglie molto favorevolmente questa coabitazione forzata perché così si sentirà meno solo; la portinaia che assomiglia a Marine Le Pen non solo nel modo di pensare, ma anche fisicamente.

Poi c’è la coppia di sinistra radical-chic, lei professoressa universitaria impegnata nelle proteste, nelle lotte per i diritti civili, che incita i suoi studenti e ne è apprezzata, ma che inorridisce al pensiero di condividere la sua casa con gli estranei e i “diritti civili” da lei propugnati diventano carta straccia nel momento in cui è costretta a tradurli in pratica, una che non esita a sfruttare la notorietà del marito scrittore di successo  per avere delle agevolazioni dalla funzionaria statale addetta a distribuire i senzatetto nelle varie abitazioni.

Il marito avrà avuto di certo grandi ambizioni letterarie in passato, forse avrebbe voluto scrivere dei libri più impegnati, produrre una narrativa di spessore, ma è finito per scrivere romanzi d’amore, una prosa romantica di successo, per potersi permettere il benessere i cui gode insieme alla sua famiglia. I titoli dei suoi libri sono monotonamente emblematici: Paradiso verde (una storia d’amore ambientata in campagna), Paradiso azzurro (una storia d’amore ambientata al mare), e progetta di scrivere Paradiso bianco… una storia d’amore ambientata nella neve di quel grande freddo  insolito; l’assonanza con romanzi reali che sono diventati dei best seller come Cinquanta sfumature di grigio, Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rossoè persino imbarazzante.

Poi c’è il palazzinaro conservatore e reazionario che vota da sempre a destra, che critica tutto e tutti eccetto se stesso, che non è simpatico a nessuno e che è un estraneo persino per sua moglie (con cui non ha più rapporti sessuali, senza per questo avere rapporti con altre donne), con sua figlia e con sua madre che ha messo in una lussuosa casa di riposo.

La moglie che non fa alcun lavoro anzi, che non ha mai lavorato, e che impiega tutte le sue energie a trascorrere le interminabili ore di una giornata, nel vuoto più assoluto e tradendo del tutto i suoi desideri, la sua volontà e il suo piacere (persino l’idea di fare sesso col marito le giunge da un programma televisivo di quelli pseudo-culturali che si occupano del benessere psicofisico e che le trasmette l’idea che questo faccia bene per le coronarie).








In un contesto in cui non basta appartenere alla stessa classe sociale, non basta essere gli ultimi parigini che abitano un quartiere per soli parigini benestanti, non basta non avere problemi economici e grosse preoccupazioni finanziarie per il futuro, perché siamo diventati gli uni estranei o francamente ostili con gli altri, i vari inquilini di quel palazzo sito al civico 86 di rue du Cherche Midi, si ignorano o si disprezzano cordialmente gli uni con gli altri.

Anche i nuclei familiari reggono solo nell’apatia, nella monotonia e nell’estraneità reciproca, con liti che non sono mai definitive e, di solito, con qualcuno che nella coppia è succube volontario dell’altro e che lo segue sostanzialmente nelle sue idee politiche, sociali, nelle sue ambizioni, persino nelle sue grettezze e meschinerie (non fatevi ingannare da qualche gracile protesta, che è soltanto formale e non sostanziale), senza il quale molte di queste coppie si sarebbero già disgregate.

Insomma, non andiamo d’accordo nemmeno fra francesi, fra persone di pari censo sociale, fra mariti e mogli, fra genitori e figli e volete che andiamo d’accordo fra estranei, fra agiati borgesi e senzatetto, fra francesi e persone che provengono da culture di cui sappiamo poco e che parlano una lingua totalmente diversa dalla nostra?   

La trovata del film non è tanto giocare comicamente con gli stereotipi, far girare lo stereotipo nello spremilimoni di una macchina da presa in modo da strizzare ogni suo succo comico fino alla fine del film, come fanno abitualmente quasi tutti i film comici italiani, che i protagonisti della nuova commedia all’italiana si chiamino Paolo, Luigi, Giovanni, Clara, Berenice o Giuditta poco importa e altrettanto poco ce lo ricordiamo, ma nessuno di noi che va a vedere un film comico italiano dimentica la macchietta di quello col lavoro sicuro a tempo indeterminato, del burino di provincia che si ritrova a Roma o a Milano, della psicologa che ha un rapporto molto conflittuale con la figlia adolescente e una relazione con un amico del marito, del cazzone che non ha mai concluso niente nella vita ma che è pieno di ambizioni e si sopravvaluta, tanto da passare da un fallimento all’altro e che adesso fa il tassista, ma intanto ha già messo in vendita la licenza perché l’era del taxi è finita e sta pensando all’idea geniale che lo arricchirà, come già prima si era lanciato nella sigaretta elettronica e in tantissime altre bolle di sapone.

Del tizio, gay represso incapace di confessarlo ai suoi stessi amici e di presentare loro il suo compagno Lucio, che spaccia per Lucilla, perché tanto lo distruggerebbero di critiche, perché in fondo in fondo un gay per loro è soltanto un “frocio”, così come una schiappa è una schiappa, sebbene sia un amico, e lo si contatta a calcetto solo se manca il portiere.








O ancora il tipo col un matrimonio naufragato anzitempo, in cui lui e la moglie non si guardano più, non chiariscono nulla, continuano a coabitare nel silenzio reciproco più assoluto, con segreti enormi che non riescono neppure a sfiorare, con i figli da crescere e lui invia i suoi sms dal cesso all’amante che si suppone molto più giovane di lui e l’amante ogni sera alle 22.00 gli invia una sua immagine osé, mentre la moglie gioca con uno sconosciuto incontrato in rete, che la sollecita ad uscire senza gli slip.

Il film in questione, Perfetti sconosciuti, ruota tutto non su persone reali, ma su stereotipi che girano incontrandosi l’un l’altro per tutto il film, non escono mai dalla parte, non cambiano, inseguono soltanto incroci comici e ti lasciano quell’illusione dello stereotipo come realtà anche al di fuori del film.

In un’epoca in cui il posto fisso non esiste quasi più Checco Zalone impernia il suo film più di successo tutto sullo stereotipo dell’impiegato col posto fisso, al di fuori della sala cinematografica chi arranca dietro ai contratti a progetto, a quelli interinali, ai Co.Co.Co., al precariato, odia profondamente l’impiegato pubblico col posto fisso, che non fa un cazzo, che magari ha pure un secondo lavoro, è assenteista, corrotto ed è stato sicuramente raccomandato, seppure ormai questa figura quasi non esiste.

La la comédie a l’italienne, o ciò che ne rimane, non fa più ridere (salvo poche eccezioni come ad esempio Smetto quando voglio), o insegue la risata facile fatta di battute volgari, di barzellette, di vaudeville; alla fine del film non ti lascia niente su cui riflettere, niente che ti scuota, dopo un po’ confondi i film, i personaggi e le situazione di un film con un altro, perché fanno parte della stessa barzelletta che ci raccontiamo quotidianamente in Italia in questi ultimi anni, della barzelletta che siamo diventati.

Non ci sono più grandi idee comiche, anche i comici migliori sono surclassati dalla realtà, pensate a quale scrittore o sceneggiatore di commedie avrebbero mai pensato che un Presidente del Consiglio in carica potesse telefonare in questura, dove era stata appena arrestata una ragazza di origini marocchine per furto e prostituzione, e chiedere di scarcerarla per evitare l’incidente internazionale perché si trattava della nipote di Mubarak.








Anche quando copiamo dai francesi lo facciamo male, io ho riso molto di più con Bienvenue chez les Ch'tis, giunto a noi come Giù al nord, l’originale francese, seppure la comicità tradotta perde sempre smalto, che non con Benvenuti al nord o Benvenuti al sud, che ne sono stati i remake italiani  … mosci, con le stesse identiche battute del film francese, con caratteristi e cabarettisti al posto di attori veri, senza alcuna tentazione di migliorare l’originale o anche solo di renderlo più fruibile al pubblico italiano.

I film francesi di questi ultimi anni fanno ridere molto più delle nostre commedie, ricordo solo quelli che sono giunti a noi da La cena dei cretini, i Visitatori, il già citato Giù al nord, Non sposate le mie figlie e quest’ultimo Benvenuti … ma non troppo.

Il motivo principale è che danno molto più spessore ai personaggi e all’intera storia, pur partendo dagli stereotipi, anche pesantemente tratteggiati, se ne sottraggono pian piano, non li portano avanti per l’intero film, fanno emergere una realtà più complessa (così come la realtà è in effetti) e la complessità dei personaggi che stentano ad identificarsi con lo stereotipo che ci facciamo di loro.

Nel film in questione ben presto la differenziazione droit et gauche (destra e sinistra) svanisce, il reazionario diventa progressista, il razzista diventa solidale, lo stronzo conservatore arriva a solidarizzare con i clochard, a visitare i ponti dove dormono, ad ospitarli a casa, a cercare di conoscerli, la moglie che non voleva in casa neppure la suocera, si autodenuncia e denuncia tutto il palazzo perché hanno barato nell’accogliere i senzatetto, la coppia di sinistra che predicava l’accoglienza e la solidarietà si scopre più reazionaria, classista e razzista dei suoi vicini di destra.

I protagonisti oscillano, come tutte le persone vere, fra aperture, slanci verso il prossimo e ritiri, diffidenze, incomprensioni, incomunicabilità, ripensamenti e chiusure repentine; ma non è finita, dopo essere passati da tutte le tonalità di convinzioni, di emozioni e sensazioni che può provocare questa convivenza forzata, dopo aver messo in discussione e rinnegato idee, posizioni politiche e pure impressioni negative sugli altri, finita l’emergenza tutto sembra ritornare esattamente come prima e ciascuno va ad indossare il suo stereotipo di prima come il travet indossava la sua grisaglia.









Il problema è troppo grande e le prese di posizione, gli slogan sociali e politici sono insufficienti quando ti trovi immerso nella sua concretezza, è facile per chi abita nei quartieri esclusivi considerare rozzi e razzisti gli abitanti delle periferie che si rivoltano contro l’ennesima concentrazione-ghetto di immigrati in quelle zone: non dobbiamo cedere alla paura, ai timori spesso infondati, ma non posiamo certo trascurare la naturale diffidenza, il senso di pericolo e ciò che può rappresentare una massiccia  introduzione di stranieri in un quartiere cittadino.

La cosa più sconcertante in tutto questo è che il cinema italiano ha disimparato a far film di successo, a far commedie vere, anche noi come lo scrittore del film francese produciamo solo Paradisi di ogni colore e abbiamo rinunciato quasi del tutto a film che rimangano nella storia della cinematografia.

In fondo, se vogliamo, la formula che usano adesso i francesi l’abbiamo inventata noi, pensate alla Grande guerra di Mario Monicelli, anche in quel caso si parte da due stereotipi massicci che per quasi tutto il film Vittorio Gassman e Alberto Sordi faranno di tutto per rappresentare adeguatamente, quelli di due furbi matricolati che le studiano tutte per non partire per il fronte, che fanno di tutto per sottrarsi al fuoco e ai pericoli del conflitto, quelli del polentone milanese e del terrone romano, quelli dell’italiano bonaccione e pacioccone più che pacifista, quella dei furbi e dell’arte di arrangiarsi.

Poi, alla fine, però, questi due antieroi per eccellenza, si riscattano per una questione di orgoglio ferito, l’ufficiale tedesco che li interroga si lascia scappare un commento sprezzante perfettamente comprensibile dai due, in cui dice all’altro commilitone presente all’interrogatorio che gli italiani non sanno nemmeno cosa sia il coraggio, il fegato, l’unico fegato che conoscono è quello alla veneziana, con la cipolla, che ben presto mangeranno anche loro dopo aver occupato Venezia.


I due reagiscono coraggiosamente, insultando l’ufficiale nemico e chiudendo ogni possibilità di collaborazione (erano staffette che trasportavano i piani, gli ordini e altre informazioni cruciali sul contrattacco italiano sul Piave), e per ciò vengono fucilati come spie nemiche.



LACRIME NAPULITANE

SENZA MEMORIA E SENZA DESIDERIO 4

$
0
0

Man Ray - Kiki

Kiki de Mountparnasse

Kiki




“Mi pare disegnata proprio come una grande scacchiera, — disse Alice finalmente. — Vi dovrebbero essere qua e là degli uomini che si muovono… ed eccoli, ci sono! — aggiunse deliziata, e il cuore le comincio a battere più celere mentre continuava: — Si gioca un gioco colossale di scacchi… per tutto il mondo… se questo è un mondo. Oh, che divertimento! Vorrei essere del gioco. Non m’importerebbe d’essere una Pedina, purché potessi essere là con loro, ma naturalmente mi piacerebbe di più essere Regina”. 
(Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, cap. III).



Man Ray - Kiki in posa da prostituta, 1925

Andre Kertesz - Kiki de Mountparnasse


Maurice Mendjizky, Kiki de Montparnasse, 1920



“Questo dev’essere il bosco, — disse meditabonda, — dove le cose non hanno nomi. Chi sa che sarà del mio, quando c’entrerò! Non mi piacerebbe di perderlo… perché dovrebbero darmene un altro, e certo sarebbe brutto. Sarebbe divertente trovare la creatura che portasse il mio vecchio nome. Proprio come i manifesti quando la gente perde i cani: "Risponde al nome di Menelik: aveva un collare d’ottone"; figurarsi, chiamare ogni cosa che s’incontra "Alice", finché una risponde. Ma se fosse savia, non risponderebbe affatto”. (Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, III).



Kiki

Kiki

Kiki





“Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole

mentre il mondo sta girando senza fretta.

[…]

E Lilì Marlène

bella più che mai

sorride e non ti dice la sua età

ma tutto questo Alice non lo sa”.

(Francesco De Gregori, Alice).



Kiki de Montparnasse, nu allongé

Moïse Kisling








Già, Alice non sapeva molte cose, non sapeva che il mondo gira, senza fretta d’accordo, ma gira indipendente da noi, e lentamente macina la nostra esistenza giorno dopo giorno fino a ridurci in polvere, non sapeva, come Lilì Marlène… o era Lili Marleen? Boh …, di essere bella anche lei, bella più che mai e che le sarebbe piaciuto molto che i “gatti”, tutti i gatti del mondo, avessero guardato lei invece del sole, le sarebbe piaciuto essere lei il sole.

Alice Ernestine Prin era nata a Châtillon-sur-Seine, in Borgogna, a sud-est di Parigi, nel 1901, ma non sapeva di essere figlia illegittima (allora si diceva “una bastarda”), perché il padre subito dopo la sua nascita si era volatilizzato, come se non fosse mai esistito, come fosse stata concepita in provetta o ad opera dello Spirito Santo … come vedete la fecondazione eterologa e l’utero in affitto sono sempre esistiti.

Subito dopo si eclissò anche sua madre, che fu costretta ad andare a Parigi a cercar fortuna, una fortuna che non arrivò mai, ma che le permise di sopravvivere e di far sopravvivere seppure molto miseramente i suoi sei figli nati tutti da padri diversi e tutti estremamente volatili, che la donna dovette affidare ai nonni.

La bambina crebbe senza conoscere i suoi genitori, in uno stato di povertà assoluta (più di qualche volta dovettero fare affidamento sulla carità delle suore), senza alcuna istruzione e con pochissimi rudimenti di educazione, in sostanza eccetto che per la sua sopravvivenza fisica e per qualche primitiva forma di affetto da parte di questi nonni, era abbandonata a se stessa in mezzo al nulla (Châtillon-sur-Seine conta oggi 6080 abitanti, allora dev’essere stato poco più che un villaggio).

A dodici anni raggiunse la madre a Parigi, raggiunse cioè una donna che non conosceva affatto, erano due complete estranee, ma Alice non solo non conosceva questa donna, ma non conosceva nemmeno la figura della madre, per lei una madre rappresentava ben poco, non ne accettava l’autorità, perché l’autorità è data dall’amore.


Man Ray - Kiki


Man Ray - Kiki, 1926




Come tutte le figlie illegittime e come accade anche per le orfane, Alice si portava cucito addosso quel sentimento abbandonico elaborato in un primo tempo attraverso una più o meno radicale svalutazione di sé (sono stata abbandonata perché non valevo niente, o perché ero cattiva è pur sempre meglio che accettare di non avere genitori, nel primo caso se dimostri cioè di valere qualcosa o se diventi più buona puoi recuperare l’affetto dei genitori che ti hanno abbandonato o conquistare l’affetto di nuovi genitori surrogato, nel secondo caso sei senza speranza).

Giunta nella grande città, nella Ville Lumière, detta così non soltanto perché fu la prima città al mondo ad essere illuminata dai lampioni a gas, ma perché era un faro per la cultura, per la scienza, per l’arte e per il buon gusto per tutte le altre, Alice fu impiegata dalla madre a lavorare in una stamperia a rilegare libri (dirà dopo nella sua autobiografia Souvenirs che il primo libro che dovette assemblare fu un’edizione clandestina del Kamasutra… quasi un presagio).

Poi trovò impiego in una caserma militare, si occupava soprattutto degli scarponi dei soldati, li disinfestava, li ammorbidiva con l’olio, li rimetteva in forma; il lavoro le fruttava poco, mangiava nelle mense popolari e aveva riadattato per sé un paio di scarponi da uomo misura 40 in cui il suo piede ci nuotava dentro.

A quattordici anni fu assunta un una boulangerie, una panetteria in cui doveva svegliarsi all’alba ed il lavoro era molto più faticoso; ma ciò che la infastidiva di più era il fatto che i garzoni appena era loro possibile la palpeggiavano in tutto il corpo nel retro-bottega, era intollerabile sentirsi tutte quelle mani che la frugavano addosso, la sentiva come una violazione e una violenza.

Certo Alice stava crescendo, non era più la bambina che si stupiva della minima sciocchezza appena giunta a Parigi, stava diventando donna e le forme del suo fisico si stavano arrotondando, e questo accendeva il desiderio degli uomini che la circondavano, un desiderio che diventava predatorio nel caso di Alice, perché nella sua situazione sembrava la preda perfetta per ogni uomo.



Man Ray - Kiki, 1930



George Hoyningen-Huene - Lee Miller





Non aveva un padre che la potesse proteggere e difendere e la madre sembrava più occupata a sopravvivere che a dare a questa povera figlia sua un briciolo d’affetto, forse non sapeva nemmeno lei cosa fosse l’affetto, fatto sta che interpretava il suo ruolo di madre in maniera molto rigida, imponendo delle regole e un controllo estremamente severi (convinta, forse, che in questo modo la figlia avrebbe evitato la sorte che era toccata a lei … perché una ragazza madre non aveva futuro, era considerata né più e né meno alla stregua di una puttana ed era difficile togliersi questo stigma anche in una città come Parigi).

Chissà perché le figlie delle donne che si sposano precocemente, tendono a loro volta a sposarsi presto, quelle che fuggono di casa hanno figlie che lasciano molto presto la casa genitoriale, è più facile per una figlia illegittima avere a sua volta figli illegittimi, per i figli dei separati separarsi a loro volta e i figli dei suicidi tendono a suicidarsi con un’incidenza maggiore degli altri.

Perché avvengono queste cose, identificazione, modellamento, imitazioni, assorbono inconsciamente il codice del legame genitoriale, la matrice relazionale vigente in quella famiglia? Si tratta solo di un caso pur avendo questo caso significatività statistica e una valenza correlazionale se non proprio un fondamento causale? Non lo sappiamo.

Sappiamo però come si può uscire da questa eredità transgenerazionale, attraverso l’amore reciproco che permette di affrontare insieme all’altro i propri traumi inelaborati, di capire e far capire all’altro quali sono i propri vissuti profondi, come ci hanno modificati, come è stato difficile, se non impossibile, riversarli dal rapporto con i propri genitori al rapporto col proprio partner e da questi al rapporto con i propri figli e nell’affrontare la vita in generale.

Alice era la preda perfetta, dicevo, non soltanto per i garzoni della panetteria, ma per qualunque maschio le gravitasse intorno perché il predatore capisce quando la propria preda è debole ed isolata; la madre è già una puttana per tutti, avendo avuto una figlia illegittima, nessuno si sarebbe stupito se anche la figlia ne avesse seguito le orme, sarebbe stata una delle tante filles de joie nate da un momento di piacere e destinate a dare piacere.


Man Ray


Kees van Dongen. Retrato de una mujer con un cigarrillo (Kiki de Montparnasse). Hacia 1922-24

Kiki





Se i palpeggiamenti con le mani ruvide e sporche di farina ad Alice non piacevano affatto, tutt'altra cosa però era il piacere di essere guardata, ammirata, desiderata dagli uomini; non ci sarebbe da stupirsi in nessun caso se una donna provasse questo desiderio, ma in lei era molto più potente e precoce proprio perché da quando era nata nessuno l’aveva mai guardata come se fosse una cosa bella, importante, desiderabile … il cogliere il proprio valore e la propria amabilità negli occhi dell’altro fu una circostanza a cui rimase appesa per tutta la vita.

Stava diventando molto bella Alice, ma lei tutto questo non lo sapeva, perché nessuno riusciva semplicemente a dirglielo, non sua madre per cui lo sbocciare della figlia diventava un problema grandissimo, che diventasse bella poi aggravava ancora di più questo problema, perché ciò significava che era ancor più desiderabile, e questa madre non sapeva trasmetterle l’orgoglio di avere una bella figlia né l’affetto e la comprensione per le dinamiche adolescenziali che stava attraversando.

Nel frattempo anche Alice provava gli scombussolamenti tipici della sua età, tempestosi desideri le attraversavano il corpo e la mente e li viveva come potenziali pericoli e come vaghe insidie e non come sensazioni piacevoli sconosciute.

Nei suo diario Souvenirs scrive che per sfuggire a quelle minacce per la sua integrità iniziò a praticare l’autoerotismo, la sua prima volta in una giornata d’estate calda e afosa chiuse le persiane e si adagiò sul letto, all’inizio quelle carezze le sembrarono bellissime e soavi, ma la strana sensazione che ne seguì, il parossismo che le accompagnò e le concluse, la fece sentire strana, le diede la sensazione di perdere il controllo di sé e la spaventò moltissimo.

Le piaceva ammirare i bei ragazzi intorno ed essere guardata, le piaceva sentire di piacere, per accentuare ancora di più la sua avvenenza, per sembrare più grande di quello che era, iniziò ad imitare le donne adulte, e a Parigi di splendidi esemplari di donne superbe e sicure di sé durante la Belle Époque ne poteva vedere quante ne voleva, così con i miseri strumenti che aveva a disposizione iniziò ad annerirsi le sopracciglia e le ciglia con la punta dei fiammiferi bruciati.



Kiki

Contant Detré - Kiki de Mountparnasse

Kiki

Kiki





La proprietaria della panetteria la scoprì mentre si sottoponeva a questa sorta di trucco rudimentale e la apostrofò col titolo di “Puttana”, Alice che è sempre stata un tipino tutto pepe e che non accettava l’autorità di nessuno, le sferrò un pugno e ne ricavò un bel licenziamento.

Trovandosi senza lavoro e non potendolo confessare alla propria madre, pur di guadagnare qualcosa si risolse a posare nuda per un anziano scultore, sua madre che era venuta a saperlo irruppe all’improvviso nello studio dell’artista e la sorprese priva di veli, la reazione di questa donna fu estrema e paradossale, per scongiurare il timore che seguisse le sue orme non volle più saperne della figlia, che si veniva a trovare così senza lavoro e senza una casa.

Come abitazione si adattò a vivere in una vecchia baracca, che riadattò alla meglio, per il resto cercò di trovare un accordo con se stessa fra il suo stato di bisogno e il timore di compromettersi, di perdere quella che all’epoca veniva chiamata “onorabilità”, corredo prezioso per una giovane donna che volesse condurre una vita serena, poter aspirare a qualcosa e non essere umiliata dagli uomini e dalle altre donne.

Adescava qualche cliente, in particolar modo vecchi, adolescenti o persone disabili, si appartava con loro nei cortili bui, negli androni dei portoni e li “per un pugno di dollari” mostrava loro il seno, scopriva le gambe e “per qualche dollaro in più” mostrava pure le sue parti intime e si faceva accarezzare, che tanto ormai ci aveva fatto l’abitudine in panetteria, li la toccavano lo stesso, che almeno pagassero per farlo.

Fatale sulla strada della sua vita fu l’incontro con Eva, una ragazzina di qualche anno in più di lei, randagia e raminga come lei, che viveva anch’essa in strada prima che la accogliesse nella sua stessa baracca, e che, contrariamente ad Alice che era ancora vergine, si concedeva ad un macellaio che ogni volta le pagava ben due franchi ed una treccia di salsicce.



Brassai - Kiki e il suo accompagnatore

Kiki

Kiki dans une belle robe






Alice divenne invidiosa dell’amica (due franchi e una treccia di salsicce erano pur sempre due franchi e una treccia di salsicce), in fondo cos’erano per lei che viveva da sola, in una baracca, abbandonata da tutti questo onore che sembrava molto prezioso a sua madre, la rispettabilità di cui tutti si riempivano la bocca, la moralità, il buon nome, il buon gusto, la rispettabilità, la virtù, la propria reputazione se non puoi nemmeno permetterti una minestra calda, se non puoi mangiare tutti i giorni, se sei sporca e lacera da suscitare solo pietà e ribrezzo, se non puoi nemmeno lavarti per darti un aspetto decente e non puoi nemmeno proteggerti dal freddo dell’inverno?

Alice cominciò a pensare che la sua bellezza fosse la sua unica fonte di guadagno e che se voleva migliorare la sa condizione non poteva limitarsi a farsi guardare da qualche sciagurato, doveva proprio decidersi a perdere la sua preziosa verginità, che ormai vedeva più come un peso che come il tesoro che le avevano fatto credere che fosse.

Eva, che ai suoi occhi era ormai un’esperta, le suggerì di farsi deflorare da un vecchio: “I vecchi fanno meno male!”, trasmettendole così l’idea che ciò che stava per fare fosse non soltanto una cosa necessaria nella sua situazione, ma che fosse solo dolore, nessuna traccia di piacere e men che meno di amore; fu così che Eva le presentò un signore cinquantenne (il vecchio che ci voleva), che di mestiere faceva il clown.

Il tizio in questione però fu molto più paterno con lei che altro, la ospitava in casa sua, le dava da mangiare, la metteva a letto rimboccandole le coperte, le suonava la ninna-nanna con la chitarra, ogni tanto gli piacere fare con lei qualche giochino erotico, ma di deflorazione nemmeno l’ombra, Alice attendeva, ma non succedeva niente, tanto che l’atteggiamento di quest’uomo le sembrava patetico.

Stanca di aspettare e insoddisfatta Alice decise di scappare con un pittore di nome Robert, che la ospitò in casa sua; la prima notte insieme, guardandolo spogliarsi venne colta da una risata isterica irrefrenabile, Robert aveva delle calze tagliate sulla punta, che mostravano le dita, come se si trattasse di mezzi guanti … e il passo da mezze calze a mezzi guanti, e da mezzi guanti a mezza calzetta riguardo all’uomo che aveva di fronte fu breve, solo che invece che esplicitare questo pensiero si mise a ridere forsennatamente.



 Kisling Moise - Kiki de Montparnasse in a red jumper and a blue scarf, 1925

Kiki

Kiki

Lee Krasner - Kiki





Ma se Robert smontò quella sera, incapace .di procedere oltre con una ragazza che non smetteva di ridere, le sere successive ci riprovò, ma stavolta aveva preso le sue precauzioni, aveva rimorchiato due prostitute con l’intento di insegnarle la tecnica del fare l’amore, come si fa godere un uomo insomma, ma Alice rifiutò categoricamente di prestarsi a questa farsa.

Non c’era verso per Alice di acconciarsi ad andare a letto con quest’uomo, che al colmo della sua ira iniziò a picchiarla, a tenerla segregata, a ricattarla, ad intimarle che se continuava così l’avrebbe messa a battere sul marciapiede proprio come le sue amiche che le aveva presentato in precedenza; era una situazione molto brutta ormai per entrambi, che forse sarebbe pure finita male, se all’improvviso Robert, per motivi mai appurati, scomparve per sempre senza dare più notizie di sé.  

Ma il fatto che si fosse sottratta alla violenza di quell’uomo, non significava che Alice avesse risolto i suoi problemi, tornò a vivere a Mountparnasse, il suo quartiere d’origine, quello in cui aveva abitato con sua madre, un quartiere curioso, con un nome altrettanto curioso, ilo Parnaso era il monte consacrato ad Apollo e alle sue muse, la culla di tutte le arti, sembra che il nome si debba ad alcuni studenti parigini che si recavano su quella che una volta era una collina, prima che venisse spianata dal Boulevard de Mountparnasse per far perdere ai parigini la voglia di fare rivoluzioni ogni volta che gli giravano le palle, a declamare le loro poesie.

Ma dovette ritornare ad abitare in un’altra catapecchia, a rubare il pane per nutrirsi e a lavarsi nei bagni dei bistrot, e il Mountparnasse era pieno di bistrot dove si riunivano artisti di ogni genere, letterari, poeti, scienziati, pensatori e tutta quella fauna ambigua e caratteristica che popolava la Parigi dell’inizio del XX° secolo.

A dare la consacrazione al quartiere di Mountparnasse contribuirono alcuni artisti che, nel pieno del loro successo professionale, scelsero questo posto come luogo per la propria abitazione e per mettere su i loro atelier, i loro studi artistici, il centro nevralgico da cui si irradiava la loro svolta artistica, culturale, filosofica o scientifica o semplicemente l’arte tutta parigina del saper vivere, del bon vivant.


Man Ray - Lee Miller, 1931

Man ray - Lee Miller, 1939

Man Ray - Kiki

Man Ray





Primo fra tutti fu Picasso, ma ben presto lo seguirono anche Soutine, Foujita, Modigliani, Pascin, Léger, Juan Gris ed Henri Matisse… per il resto, praticamente tutti, ma proprio tutti quelli che contavano e anche quelli che speravano di contare qualcosa, ormai frequentavano i locali del Mountparnasse.

In quei locali fumosi, grevi di odori di cibo, di grassi sfrigolanti, di cipolle e di agli rosolanti, di fette di pane tostato, di salse aromatiche, di vassoi ripieni di ogni ben di dio, delle bollicine della Perlier o di qualche champagne, avvenivano discorsi che Alice non poteva nemmeno comprendere in tutta la loro intensità e nella loro profondità.

Così, questo scricciolo di donna, inselvatichita dalla vita che conduceva, frequenta La Rotonde, più per lavarsi gratuitamente che per consumare qualcosa pagando, qui entra nelle simpatie di Chaïm Soutine, un pittore russo, che la presenta a sua volta ad alcuni suoi amici pittori che di tanto in tanto la sottraggono alla vita di stenti offrendole un letto e un pasto caldo.

Molti di loro la ospitarono per simpatia, per spirito di carità, perché lei docilmente posava per loro, per qualche istinto paterno (sempre ammesso che esistano simili istinti) … chissà, ma qualcuno la vide anche come donna anzi, vide in lei proprio un prelibato bocconcino che nessuno sembrava ancora aver colto, nonostante le asperità che aveva attraversato.

A cogliere questo fiore fu il pittore polacco naturalizzato a Parigi Maurice Mendjizky, fu lui a renderla donna (sono quelle cavolate che un uomo inizia a credere per sentirsi importante e che la donna gli lascia credere per amore o per convenienza … una donna è già donna, diventa donna da bambina che era come se fosse la cosa più naturale del mondo un tempo diventava anche madre con la stessa nonchalance… diciamo che l’uomo è soltanto un utile ammennicolo), fu quest’uomo però a cambiarle il nome da Alice Prin a Kiki de Mountparnasse, fu lui a consacrarla come modella dei più grandi artisti dell’epoca e a spianarle la strada come la regina di Paris.


Man Ray - Lee Miller o Kiki de Mountparnasse, lui le scambiava spesso e io ho trovato entrambe le indicazioni

Man-Ray-e-Lee-Miller-©-Lee-Miller-Archives-1939-photo-Theodore-Miller-1931

Marlene Dietrich






Da quel momento diventò la modella per molti artisti di Parigi: Moïse Kisling (Nu assis), Amedeo Modigliani, Tsuguharu Foujita (Nu couché de Kiki), Chaïm Soutine, Francis Picabia, Jean Cocteau, Arno Breker, Alexander Calder, Per Krohg, Hermine David, Pablo Gargallo, Mayo e Tono Salazar, mentre il pittore e regista Fernand Léger filmò il suo sorriso enigmatico nel film Ballet mécanique.

Molti di essi erano perennemente squattrinati, le davano pochi spiccioli, quando potevano darglieli, più spesso vitto e alloggio, ma Alice si spogliava volentieri non tanto per i soldi quanto perché le piaceva farsi ammirare e sperava che quelle opere avessero un successo strepitoso perché anche lei diventasse famosa … come la Gioconda.

E invero, fra gli artisti di quell’epoca, c’era la ricerca spasmodica non solo a produrre una buona arte, ma a produrre il capolavoro dei capolavori, come lo era la Gioconda di Leonardo … un’opera che chiunque poteva osservare pagando pochi franchi per il Louvre, un’opera universale, che ha tracciato la storia dell’arte, di quelle che una volta viste non le dimentichi più, quelle che hanno il potere di far sparire qualsiasi opera per quanto pregevole vicina a loro … chi ricorda quali opere ci siano nella sala del Louvre dov’è esposta la Gioconda e chi saprebbe dirmi quale altra opera di pari dimensione è conservata nell'ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano proprio di fronte all’Ultima cena leonardesca?

Alice non era ancora un’opera d’arte, era intraprendente, ambiziosa, voleva essere ammirata, voleva diventare la regina di Parigi, ma era incolta e volgare, grezza come una timpa, dura e pietrosa come gli scogli di Longarini, spesso anche scurrile e volgare e anche svergognata … per lei le mutande proprio non esistevano, e quando successivamente le chiederanno in un’intervista il perché non le indossasse rispose che era per comodità, i caffè a quel tempo non avevano la toilette per signore e allora bastava sollevarsi le gonne per fare pipì in un angolo della strada; dell’opera d’arte per il momento aveva solo il nome e le amicizie giuste: gli artisti de La Rotonde a Mountparnasse.

Ma era anche di un candore e di una generosità impressionanti, non solo concedeva spesso il suo corpo a persone disperate, e non soltanto agli artisti, ma una volta nei pressi de La Rotondesentì piangere una donna a cui era morto il figlio e lei non aveva nemmeno i soldi per pagare il funerale, fu l’unica ad intenerirsi, o l’unica intenerita che fece qualcosa: entrò nel ristorante e girò per tutti i tavoli con la gonna alzata, poi avvicinava loro un cappello chiedendo soldi “per lo spettacolo”, alla fine era riuscita a mettere su non soltanto i soldi per il funerale ma anche di che pagare a quella donna un abito nuovo e più adatto per seppellire suo figlio.


Josephine Baker

Dora Maar (1907-1997) - Jeune Femme Nue Assise 

Kiki

Kiki





La sua storia d’amore più nota, quella più importante, fu con Man Ray, iniziata nel 1921 e che durò, fra alti e bassi, per sei anni, fra migliaia di fotografie scattate, momenti di passione e di tenerezza, fra reciproci tradimenti, urla, strepiti, litigi, schiaffi, pugni, calci, tirate per i capelli, spesso tutto ciò avveniva pubblicamente, quella relazione per molti aspetti non riusciva proprio a rientrare nelle faccende private, sembrava aperta al pubblico sia nelle effusioni sia nelle accese discussioni.

Entrambi erano gelosissimi del partner, bastava un niente per scatenare un putiferio, bastava un gesto, un’occhiata, una parola di troppo ad un amico o ad un cliente dei locali dove adesso lei si esibiva come cantante e ballerina, perché a lui salisse il sangue agli occhi e uscisse il fumo dalle orecchie e si alzasse dal tavolo per pestarla, lei non si difendeva soltanto, ma contrattaccava con calci e pugni, con tirate di capelli.

Anche lei non scherzava, in certi casi diventava una furia, come quando una sera al cafè La Coupole si accorse che fra il suo uomo e Lee Miller, indossatrice ed aspirante fotografa catapultatasi dagli Stati Uniti a Parigi per consacrarsi al sacro fuoco dell’arte, bisessuale e libertina quanto e forse più della stessa Alice, c’era un’intesa intima scandalosamente manifesta; Alice non seppe trattenersi, gli sferrò un pugno in faccia e avrebbe continuato a menarlo se lui non si fosse rifugiato sotto il tavolo, da dove lei cercava di stanarlo lanciandogli addosso, piatti, bicchieri e ingiurie.

Ad un certo punto di questo ménage sado-maso Alice face un ennesimo colpo di testa, stanca della tensione continua creatasi fra lei e Man Ray colse al volo l’occasione per scappare negli Stati Uniti con un giornalista americano, ma soltanto qualche mese dopo spedì al suo uomo a Parigi un telegramma da Saint Louis con tre lettere soltanto: “SOS”.

Mar Ray accorse in suo aiuto e la loro relazione riprese con più impulso di prima, ma la nuova linfa dovuta alla paura di perdersi e al piacere di ritrovarsi durò molto poco, lei riprese ad esibirsi al Jockey, un locale notturno non molto raffinato, dove faceva una versione erotica del can-can, ballando senza mutande, quasi sempre ubriaca o sotto l’effetto di qualche droga, che quando cantava dimenticava le parole e ravvivava l’atmosfera alzandosi la sottana e mandando tutti i presenti in visibilio.



Kiki

Pablo Gargallo, - Kiki de Montparnasse - bronze doré, 1928 © Archives P. Gargallo





Non è che i due non si amassero, a modo loro si amavano pure, è che proprio nessuno dei due riusciva ad essere fedele: lui se trovava sulla sua strada qualche donna bella e interessante, lei se qualcuno le piaceva o soltanto se le faceva pena, sarebbe bastato allora che non fossero gelosi l’uno dell’altro, ma sfortunatamente lo erano fino alla follia, fu una fortuna allora quando si separarono, altrimenti si sarebbero massacrati.

Quando lascia Man Ray Alice è definitivamente per tutti Kiki de Mountparnasse, oltre ad essere cantante e ballerina per i locali di Parigi (si esibì anche all’Oasis), calcò anche le scene del teatro  con un’opera di Francis Picabia (sfortunatamente con scarso successo) e provò anche a tenere un pennello in mano combinando un completo disastro.

Al suo vernissage, organizzato in grande stile dal suo amante di turno, il disegnatore Henri Broca, erano presenti gli artisti più famosi, molti intellettuali, giornalisti e persino il ministro dell’interno Albert Serrault; in uno scatto d’ira Kiki contestò i rappresentanti del governo e li riempì di insulti e parolacce, il giorno dopo lo scandalo era enorme e lei era su tutti i giornali.

Fu anche attrice cinematografica, interpretando otto film nel ruolo a lei congeniale di donna perduta, ma non divenne famosa per le sue, peraltro discutibili, qualità artistiche, quanto perché divenne  un’icona, un modo di essere, un profilo ben noto perché artisti ormai famosi la resero immortale, tanto da non sembrare affatto fuori luogo che questa donna nel 1929, all’età di 28 anni decidesse di scrivere le sue memorie.

E che a scriverle la prefazione dell’edizione americana fosse il grande Ernest Hemingway, che disse di lei con un tono che la diceva lunga sul loro rapporto e che non sembrava per niente affettato o esagerato: “Del suo corpo splendidamente bello, della sua voce gradevole, adatta a parlare più che a cantare. Kiki ha certamente dominato l’era di Montparnasse più di quanto la regina Vittoria abbia dominato quella che si chiama era vittoriana”.


Paul Almásy

Kiki

Kiki






E, rincarando la dose: “Se siete stanchi dei libri scritti dalle signore della letteratura per entrambi i sessi, questo è un libro scritto da una donna che non è mai stata una signora. Per quasi dieci anni è stata a un passo dal diventare quella che oggi sarebbe considerata una Regina, il che, naturalmente, è molto diverso dall'essere una signora”.

In molti, uomini e donne, a Parigi, desideravano Kiki de Mountparnasse, chi desiderava essere simile a lei, avere la sua sfrontatezza, essere desiderata e amata da tutti come lei era, e chi desiderava invece la sua compagnia, le sue attenzioni, il suo affetto, il suo corpo morbido, i suoi baci infuocati, il suo culo strepitoso impressionato in molte pellicole e pennellato su molte tele, quel culo che mostrava con sfrontatezza alle famigliole o alle coppiette borghesi dopo averle avvicinate con un sorriso e aver chiesto loro: “Posso fare qualcosa per questi bravi signori?” che venivano a passeggiare nel suo quartiere, ormai diventato di moda.

Ma Kiki, o meglio Alice, aveva due soli desideri, del primo è lei stessa a parlarcene quando confessa che: “Ho solo bisogno di una cipolla, un tozzo di pane e una bottiglia di vino rosso, e troverò sempre qualcuno che me li offre”.

A me non colpisce la povertà delle sue richieste, una persona avvezza a poco e a saltare i pasti può anche accontentarsi di poco anche quando economicamente sta bene, oppure esagerare adesso che può e pretendere solo ostriche, caviale e champagne, come una sorta di risarcimento per ciò che non ha avuto, così come andava a letto con molti uomini alla ricerca di quell’affetto che non aveva mai provato, e come le piacesse essere guardata e desiderata come compenso per non essere mai stata badata e accudita.

Mi colpisce piuttosto il suo candido: “ … troverò sempre qualcuno che me li offre”, la vita era stata dura con lei, molto precocemente aveva dovuto ricorrere all’arte di arrangiarsi, altrimenti sarebbe morta di fame, di freddo, di stenti, di fatica o di malattia, aveva dovuto contare solo su se stessa, proprio per questo era per lei importante poter pensare che qualcuno sempre e dovunque avrebbe provveduto a lei, non le avrebbe fatto mai mancare quel poco che poteva darle e che sarebbe stato sufficiente a tenerla in vita.


 Man Ray and Lee Miller at the Fairgrounds, 1930

Man ray - Kiki de Mountparnasse 1926

Kiki






L’altro desiderio, molto più esplicito ed evidente, che abbiamo rincorso per tutta la narrazione di questa vicenda di vita, era quello di diventare la regina di Parigi, la più famosa, la più ammirata, la più desiderata, quella che manda in visibilio tutti.

Ma a Parigi in quel tempo c’erano molte prime donne, anche più belle e seducenti di lei, più melodiose, più conturbanti, più ambiziose, più intraprendenti, più intelligenti, più talentuose, più geniali, più fredde e calcolatrici, più manipolatrici, più diaboliche … ma nessuna di loro riuscì a spuntarla, Parigi è una donna gelosa, dispettosa e capricciosa, solo lei è la regina e le varie vamp, starlettes, femmes fatales, chanteuses, danseuses, … duravano un periodo più o meno breve, una moda, il passaggio di una meteora, Parigi le illuminava, e Parigi le spegneva, senza ragione alcuna le elevava e senza ragione alcuna le faceva precipitare.

Ed è proprio nel periodo del suo massimo splendore, nel 1929, quando scrive le sue memorie, quando è ormai conosciuta da tutti e vive agiatamente, quando possiede un locale tutto suo, il “Chez Kiki” (l’ex Oasis), in rue Vavin, che la sua carriera artistica e il suo successo iniziano a declinare; Kiki deve la sua esistenza e il suo successo a quel miracolo di equilibrio fra genio, arte, follia, sregolatezza e tolleranza (le amministrazioni parigine tolleravano, saggiamente, in quel quartiere e a Mountmartre cose che non erano tollerate altrove, ad esempio a Pigalle, dove la “mondaine”, la buoncostume, interveniva spesso … nessun uomo che non fosse Utrillo o Modigliani poteva aggirarsi per i vicoli di Parigi completamente ubriaco ad ululare alla luna senza passare la notte alla sûreté) che era Mountparnasse.

Alice si approssima ai trentanni, l’abuso di droghe e alcol aveva accelerato il naturale decadimento del suo fisico, era molto ingrassata, il volto tumefatto, nessun pittore avrebbe più pensato a lei come modella per un nudo femminile, e di culi sodi e desiderabili Parigi era piena, iniziò ad isolarsi, a non voler vedere più nessuno, se non poteva più essere Kiki de Mountparnasse, voleva almeno essere ricordata per ciò che era stata e non per ciò che era diventata.

Il suo carattere focoso e impulsivo completò il suo precipizio, venne arrestata per aver picchiato un commissario di polizia e rimase in sicurezza per dieci giorni, durante l’invasione tedesca intreccia legami con la resistenza ed è costretta a rifugiarsi in Borgogna per sfuggire alla Gestapo, nel dopoguerra viene di nuovo arrestata per traffico di stupefacenti, dei soldi fatti durante il periodo di massimo successo non le rimane più niente, ha perso di vista molti amici di allora che: o hanno fatto una brutta fine o hanno raggiunto il successo.



Moise Kisling (Poland 1891-1953 France) Kiki de Montparnasse (1924) oil

Kiki






A cinquant’anni per sopravvivere legge la mano ai clienti nei bistrot, è diventata obesa, il ventre gonfio per l’idropisia, viene ricoverata all’ospedale di Laënnec, dove morirà il 23 marzo del 1953 dopo una breve agonia, al suo funerale dei suoi vecchi amici sono presenti solo DominguezFoujita e nessun altro, in compenso nessuno dei vecchi locali che Kiki aveva frequentato e dove si era esibita (La Coupole, Le Dôme, Le Jockey, La Jungle ….) mancò di inviare una corona di cordoglio.


Povera Alice, piccolo grumo di carne, sangue, muscoli e ossa, scagliato sulla terra, oggetto di mille desideri, generosa di te e del tuo corpo fino al masochismo se solo qualcuno ti piaceva, se sapeva farti ridere, se ti era simpatico, se lo trovavi patetico, se vedevi in lui lo sconfitto, l’umiliato, il bisognoso, nessuno ti ha guardata come avresti voluto, nessuno ha ascoltato i tuoi sospiri più profondi, nessuno ha mai preso sul serio i tuoi desideri.



S 'IO FOSSI FOCO ...

SPLASH

Viewing all 204 articles
Browse latest View live




Latest Images

Pangarap Quotes

Pangarap Quotes

Vimeo 10.7.0 by Vimeo.com, Inc.

Vimeo 10.7.0 by Vimeo.com, Inc.

HANGAD

HANGAD

MAKAKAALAM

MAKAKAALAM

Doodle Jump 3.11.30 by Lima Sky LLC

Doodle Jump 3.11.30 by Lima Sky LLC

Doodle Jump 3.11.30 by Lima Sky LLC

Doodle Jump 3.11.30 by Lima Sky LLC